lunedì 3 novembre 2025

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 34

 (19.03.2009)

Ettari di terreno incolto, binari a perdersi all'infinito. Lo scalo deposito dei vagoni ferroviari, laggiù, nella campagna sulla Salaria. Dove la notte lenti arrivavano come capodogli ad arenarsi, treni passeggeri, treni merci, tender con vagoni blindati di merci da sdoganare. Sbuffanti, rugginosi, lentamente approdavano alle banchine terminali. Vuoti, ma solo per poco, perché dalle colline circostanti, dai cespugli e dai frattoni centinaia d'occhi aspettavano, Nel silenzio. Lì noi aspettavamo, neanche più in divisa, in jeans, stivali e giaccone, trasandati, nascosti nel buio, dietro il muro della casamatta dei ferrovieri. Nella sinistra la Maglite da trenta centimetri, acciaio pesante, un fascio di luce accecante e una valida spranga se fosse servita; nella destra la .40 col colpo in canna. Ci si muoveva indolenti, tranquilli, come parte stessa del tessuto della notte, a passi felpati nell'erba alta, scivolando tra le file dei vagoni con i capelli ritti sulla nuca, sempre in attesa della coltellata che poteva arrivarti quando arrivavi al distacco tra un vagone e l'altro poi si saliva piano sui gradini e si apriva la porta del vagone nell'aria irrespirabile, tra i vetri divelti, negli scompartimenti devastati, merda e urina ovunque a cataste, si spalancavano a calci le porte delle "camere" e si gridava a tutti di uscire. Come ogni notte, iniziava l'esodo dei dannati. A diecine, stipati con tutte le loro masserizie, nel fetore ammorbante, si alzavano da terra e dai sedili e noi, uno al capo del vagone e l'altro in fondo a chiudere la fila si facevano scendere tra le bestemmie. Rumeni, polacchi, albanesi, tunisini, magrebbini, egiziani, russi, ceceni, moldavi li si faceva camminare incolonnati scortandoli, due contro trenta, quaranta, spesso anche di più, verso l'uscita dello scalo ferroviario. Sotto le luci algide dei lampioni controllavamo i documenti sapendo che più di tanto non potevamo fare e si cacciavano tutti fuori. Il tempo di una sigaretta e li vedevi scomparire nelle campagne poi iniziavamo la marcia verso le colline dalle quali sapevamo bene che entro un ora sarebbero calati di nuovo. E quando arrivavano a volte bastava puntargli la luce addosso per farli girare sui tacchi. Le aggressioni erano all'ordine del giorno - o della notte, a voler ben vedere - e non erano solo coltelli da macellaio arrugginiti quelli che ci sguainavano mentre ci passavano accanto nello scendere dai vagoni. Più volte il balenare della canna di una pistola ci costringeva a gettarci a terra, in quella selva fetida e sparsa di escrementi, sperando di fare in tempo. La polizia ferroviaria non passava neanche più, il suo gabbiotto era diventato il regno dei topi che danzavano sugli scatoloni delle vecchie pratiche. L'ultima volta gli avevano sparato contro con i fucili a pompa, gli era bastato. In due, in quattro ettari di campagna e treni, giravamo. Come dei folli, la barba lunga, irriconoscibili. Capitava di puntarsi le armi addosso con altri in borghese, dei carabinieri o dei poliziotti, anche loro infiltrati in quel sottomondo alla ricerca di refurtiva, visto che da lì partivano i furti che spazzavano gli appartamenti di tutta la Salaria. Però riuscivamo sempre a fermarci in tempo, qualificandoci e mostrando i distintivi. La mafia russa spadroneggiava, taglieggiando tutti per farsi pagare il pernottamento sui vagoni e noi eravamo l'ostacolo al loro reperire i fondi per l'acquisto di droghe. Un vagone sepolto dall'erba era stato trasformato in set per film porno, era arredato più lussuosamente di casa mia. In un altro un gruppo di russi bivaccava tra sacchi di immondizia e ciarpame di ogni genere, ubriachi fino al delirio, sempre intenti a picchiarsi a sangue, fino a che una notte prese fuoco tutto e in due ci restarono dentro. Ogni tanto venivano certe squadre speciali a dare la caccia ad un egiziano che conoscevamo bene, in odore di terrorismo e li portavamo nel vagone che occupava di solito dove una notte trovammo cartine dettagliate di San Pietro segnate e scritte in arabo, cavi elettrici e materiale che non riconoscemmo ma che fu subito portato via da loro. Lui era sparito , avvertito dagli zingari che facevano da vedetta nello scalo. A volte la pioggia rendeva tutto più difficile, il gelo penetrava nelle ossa, il mattino sembrava un sogno irrealizzabile. Le albe mortifere vissute là avevano il sapore della liberazione dall'inferno ma era una condanna quotidiana che non finiva mai. Quando partivi per andarci non sapevi mai se saresti tornato a casa. Poi, una notte, un collega vide nel gruppo che stavamo allontanando una ragazza, rumena, e si allontanò con lei con la scusa di trovargli un posto per dormire. Io trascinai tutti fuori, da solo e continuando a guardarmi la schiena. Lui tornò dopo un paio d'ore dicendo di averla lasciata su un vagone. Non era uno dei "fissi" e non tornò nei giorni seguenti. Ma dopo poche notti vennero i carabinieri, presero la ragazza e si chiusero con lei per parlare, nella stazioncina; usciti mi vennero a cercare e quando entrai lei si girò dicendo che non ero stato io ma l'altro. Se l'era violentata e prima di andarsene gli aveva dato il mio nome e cognome dicendo che l'avrebbe cercata di nuovo. Io diedi fuori da matto e loro capirono l'equivoco. Lo prelevarono a casa e finì carcerato ma il servizio, laggiù, rendeva pazzi. Si sa bene, abissus abissum invocat. E molti di noi hanno il loro piccolo Vietnam nascosto in fondo all'anima.




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