(09.04.2009)
C'era una volta, ai tempi dell'era preisterica, la gente tranquilla, quella che aveva del tempo e sapeva come adoperarlo. E di solito lo usavano per fare cose che gli procuravano soddisfazione. Una di queste cose, lo si deve ammettere, era fumare la pipa. Un vizio meno delirante del farsi fumare da una sigaretta, quella cosa bianca che fa tutto da sé. Mi ero accostato a questo piacere già da giovane , in virtù di una certa pipa squadrata e irlandese che mio padre mi aveva regalato, quasi per gioco, forse perché anche lui ne possedeva una a boccetta, di legno scuro, priva di marca, nella quale a volte metteva del tabacco americano da un pacchetto giallo e quadrato la cui marca ormai mi sfugge. Amavo vederlo compiere tutto il rituale del caricare e fumare la pipa e così, avanti negli anni, mi ci dedicai anche io. Solo che, da quel maniaco collezionista di tutto che son sempre stato, anche qui mi lasciai prendere la mano e invece di fumare una pipa come tutti i gentlemen di campagna che si rispettino, iniziai a comprarne ad ogni occasione, a farmele regalare, a collezionare intere raccolte. Le preferite - lo ammetto - son sempre state le irlandesi Peterson's, sia perché economiche sia perché fatte benissimo con dei legni pregiati, delle ottime radiche ad occhio di pernice, e a volte persino le fiammate che si trovavano a prezzi contenuti. Rispetto naturalmente alle italiane Brebbia e Savinelli le cui fiammate, quelle pipe il cui legno mostra dal fornello all'alveo le rigature verticali della radica, avevano ed hanno costi salatissimi. Prediligevo le Peterson's lucide e con l'anello in argento, di solito le Rhodesian squadrate, angolate o diritte, a volte persino le curve alla Sherlock Holmes e anche le militari opache. Ottime pipe, già preparate, nel fornello, per essere rodate dalla prima accensione, mentre con certe italiane bisognava prima spalmarne il dentro con un velo di miele, aspettare che asciugasse e poi caricarlo basso così da cristallizzare le pareti e fare attaccare meglio il carbone. E le magnifiche Stanwell's, dai lunghi cannelli e dai colori accesi, i legni lavorati ad aniline, scuri o violentemente rossastri, con l'anello in ottone superiore e a volte il coperchietto per proteggere la brace dal vento del Nord, quei vecchi marinai la sapevano lunga, e nel fumarle all'aperto, d'inverno, ti potevi immaginare pastore in una brughiera.. Abituato a sperimentare di tutto, compravo, sì, i tabacchi confezionati, meravigliose miscele aromatiche come il Borgia, il Navy Cut, la gamma della Dunhill già all'epoca carissima, ma alla fin fine quel che mi dava gioia era prepararmi in casa le miscele, sia seguendo le ricette che trovavo sui libri sia sperimentando in maniera vorticosa e a volte invero bizzarra. Era facile infatti trovare i pacchetti di tabacchi puri del Monopolio con i quali si facevano le mescole. Mezzo pacchetto di Regolare, un antico toscano sbriciolato per dare forza, un pizzico di tabacco Perique azzurro per il retrogusto piccante, un abbondante manciata di Latakia, il tabacco turco grasso affumicato nelle stalle al fumo lento dello sterco dei cammelli, che una volta era il nerbo stesso delle celebri Camel mentre ora avendo raggiunto costi proibitivi per la lunga lavorazione, è stato surclassato da surrogati chimicamente simili al gusto originale. Tritavo tutto alla stessa misura e ne riempivo i vasi, aggiungendovi dei piccoli orciolini di terracotta riempiti di liquore o di estratto di arancia, che diffondevano aroma e umidità al tabacco. Dopo qualche mese erano finalmente pronti per essere caricati nei fornelli, spinti giù col pollice, accesi con lente boccate e ti godevi quieto la tenera brace che, amica, sapeva dare conforto nei momenti bui o quando il freddo scendeva nel cuore, magari leggendo un buon libro sulle pipe, ma sì, di Gianni Rodari, o i consigli sui tabacchi che trovavo nella rivista Smoking di Fincato. E quelle meravigliose pipate fatte sul pontile di Ostia, al freddo dell'inverno, col vento che ti strappava i pensieri lasciandoti a tu per tu con l'anima e null'altro, allungando i minuti della propria vita nel rituale lento e sapiente del caricare e riaccendere, tenendo due dita sul fornello a confortarsi, come un uomo delle caverne vicino al fuoco in una grotta buia con l'incertezza nel futuro...Quale conforto sapeva dare una buona pipa, che senso di legame forte col passato, un gioco per bambini ormai troppo cresciuti, il profumo delle radici smarrite. Quanta tristezza nel vederle ora allineate nella vetrina del mobile dei tabacchi, che in casa c'è il pupo e non si fumano, che al lavoro sei circondato da contagiosi fumatori di sigarette che ti guardano come un matto e le tradisci così, con un rimpianto, ma senza più vergogna. Poter avere tempo..

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