lunedì 3 novembre 2025

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 36

 (03.04.2009)

I primi ricordi, forse, sono della tua schiena sulla quale salivo a cavallo, piccolissimo, ancora incosciente di quel che fosse il mondo, per me tutto racchiuso in quella casa dal balcone coperto, e la pecora a dondolo e il topolino giallo da far galleggiare nella mia vaschetta. E i tuoi grandi sorrisi, orgoglioso di quel figlio che ti portavi appresso anche sui cantieri, dove guardavo stupito le grandi impalcature e le buche nel terreno dove si impastava la calce. Tutti i giorni, quando mi portavi a scuola e sempre ti ritrovavo all'uscita, anche negli anni bui in cui varcavo con terrore le porte dell'istituto certo di quel che mi avrebbero fatto i compagni e contavo i minuti pregando di arrivare allo squillo della campana e correvo per le antiche scale in cerca di rifugio nella nostra Dauphine blu, e non capivi cosa avessi, finché non confidai tutto a mia madre. Ricordo il giorno in cui, all'uscita, affiancasti i miei compagni e bastarono poche parole perché potessi nuovamente vivere qualche tempo tranquillo. Almeno fino a che non fui cresciuto a divenire carogna quanto loro e a riprendermi il rispetto con i pugni. Ricordo i grandi viaggi vagabondi con le tende in tutta Europa, alla scoperta di un mondo che ci trovava complici nel meravigliarci e dove io facevo da interprete e tu da spettatore curioso del mio parlare con chiunque capitasse. Ricordo gli anni passati a dipingere e a disegnare, sempre più, sempre meglio e il tuo ripetermi che non mi avrebbe portato da mangiare ma poi, quando arrivavano i trofei e salivo sui palchi per riceverli ti brillavano gli occhi. Ed il lavoro che seguimmo insieme, le albe gelide prima che venissero gli operai a sentire la pelle delle mani attaccarsi ai tubi dei ponteggi e le nottate ancora a finire i conti ed i preventivi, ed il tuo continuo arrovellarti per trovare da mangiare e lavorare per venti famiglie e tutto quello che sempre facesti per noi, sempre il meglio, le scuole, i club esclusivi dove andavo a nuotare con lo Scià di Persia ed a giocare a scacchi con Burt Lancaster per poi non capire perché tu giravi sempre con gli stessi vestiti.. Mi insegnasti che un contratto si può fare stringendo una mano, che dire una cosa obbliga a farla, che se ti prendi una moglie è per la vita. E l'ho fatto, Dio sa se l'ho fatto, perché io sono te, e finché io vivo tu vivi.. E non bevevi, e non fumavi, ed in cambio ne avesti una cirrosi epatica mai diagnosticata perché asintomatica, che rapida e maledetta ti portò alla fine, tra sbocchi di sangue e svenimenti, in quel letto del Gemelli attaccato a flebo e macchinari ed ancora - col terrore di quanto ci avrebbe aspettato - continuavi a scrivere appunti per il lavoro da svolgere. Il mio colpevole sfuggire alle visite, oggi perché gli orari del lavoro non collimavano, domani perché abitavo fuori Roma, ma in fondo solo per la scaramantica illusione che se non ti vedevo morire non saresti morto. E stavo accanto a te, indeciso se parlarti, senza trovare le parole, contando i minuti per fuggire, da quel bastardo che ero. Ci lasciasti così, in un giorno di luglio nel sole, a misurare i mesi che ci aspettavano prima del crollo che ci avrebbe portato via tutto insegnandoci quanto sa di sale il pane altrui, e la paura di vivere senza te. Mi restarono il tuo cappello col quale fingo di sentire i tuoi pensieri, i tuoi occhiali con i quali guardo il mondo che vedevi tu, il porcellino di plastica che bambino ti nascosi nel portafogli e lì lo ritrovai ed ora viaggia ancora con me. E la incalcellabile colpa di non averti mai detto "Ti voglio bene" tutte le volte che avrei potuto farlo. Aspettami nella luce, papà, presto saremo di nuovo insieme. Per sempre.



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