mercoledì 22 ottobre 2025

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 29

 (11.02.2009)

Anni Ottanta, il "Plein Air" impazzava e la moda del campeggio spopolava grazie anche alla possibilità di fare grandi viaggi contenendo le spese. Ci armavamo di tutto il ben di Dio possibile e stipavamo il pulmino Volkswagen verde militare, col tetto alzabile e le bizzarre tendine a fiorellini in ogni angolo consentito poi si partiva, carichi sopra tutto di allegria e aspettative. Il pulmino macinava tranquillo lunghi chilometri d'asfalto, ci si divertiva a riconoscere il passaggio da una regione all'altra d'Italia dalla conformazione dei monti e delle campagne. Quando attraversavamo la Toscana era sempre una gioia, quelle immense colline con quei colori inconfondibili, i verdi digradanti nell'azzurro, i gialli senape delle messi, il celebre Terra di Siena bruciato che indicava le coltivazioni messe a maggese. E quegli sparuti grappoli di alberi immersi solitari in cima a favolose colline, come eterne sentinelle delle greggi, dormienti nella calura d'agosto. Si tagliava l'Umbria con i suoi panorami schivi e irti di fabbriche, gironzolavamo nell'Emilia Romagna così piatta e verde alla ricerca delle nostre radici ataviche, in quei paesini raccolti attorno alla piazza ed al suo portico, con quei fiumiciattoli dove le rane si stipavano gracidanti. E si andava su, sempre più su, sino ai confini verso uno dei nostri campeggi favoriti, meta già da anni delle nostre vacanze e spesso ultima tappa in patria prima di immergerci nell'Europa sconosciuta, forti del cambio favorevole e della mia conoscenza delle lingue. Ci fermavamo per più giorni nel campeggio di Campodolcino, vicino Chiavenna ed al favoleggiato porto franco di Livigno, meta preferita dai vacanzieri perché la benzina costava due lire e si compravano stecche di sigarette, liquori e quanto altro a pochissimo. Si giungeva al campeggio dopo la lunga strada montuosa che sfociava in una vallata circolare coronata dai monti, le palazzine della reception, della mensa e dei bagni ancora in costruzione; una vista meravigliosa, file e file di roulotte e di tende ad attenderci. La gente sempre quella che incontravamo da anni e con i quali avevamo stretto un certo qual rapporto di amicizia annuale, il Panzieri - una sorta di rustico montanaro - col Panzierino, un pupattolo che teneva in braccio sempre ridente e rosso per la malaugurata abitudine dei suoi di fargli assaggiare il grappino mattutino, la piccola Paola che ogni anno cresceva un po' di più e con la quale ogni anno mi spingevo un po' più in là con reciproco spasso...e tutti gli altri con i quali la notte ci si stringeva intorno al falò per preparare un potente e untuoso vin brulè con dentro pepe e chiodi di garofano. Una manna viste le temperature polari che stecchivano le tele delle tende e chi le occupava, passato di bocca in bocca nelle grolle, sotto costellazioni mai viste dalla capitale. E gli enormi pentoloni dove quotidianamente sobbolliva la polenta taragna per ore, e l'attesa spasmodica che suonasse il campanaccio a mezzogiorno per avvertire che nella mensa erano pronti i pinzoccheri. Si badi bene, mica gli astrusi pinzoccheri nelle buste precotte oggi in voga nei discount, no, questi erano una sorta di gnocchi di patate miste a vari tipi di formaggi locali che salivano e scendevano nei calderoni fumiganti per poi essere versati nei piatti con l'intingolo bianco e filante dei formaggi fusi, coprendo il tutto di parmigiano grattato. Un profumo che si spargeva per tutta la valle costringendoci a interrompere le partite a bocce e gli altri giochi - a carte, più che altro - per correre ai tavoli. La piccola canadese ci liberava dal dover dormire con i miei nel pur caldo pulmino, offrendoci la possibilità di svicolare la notte in cerca delle altre compiacenti campeggiatrici con le quali quasi sempre si rimediava un calore di tutt'altro genere. I monti che chiudevano in solido abbraccio la valle offrivano escursioni leggendarie, in cerca di funghi e a volte di gnomi: una volta mi inerpicai per un sentiero senza rendermi conto che era un semplice camminatoio di capre e finii appeso ad un albero sul burrone senza poter tornare indietro finché riuscirono a ritrovarmi e a trascinarmi sano e salvo al campeggio, dove fu salvifico il rito del grappino per farmi tornare il colore in faccia. Poi tutto finì, come spesso succede in questa nostra Italia, nella maniera più gretta...la Lega Nord emetteva i suoi vagiti e le popolazioni risposero all'appello senza bisogno di chiederglielo così un giorno, al nostro arrivo, quello che sentimmo intorno a noi non fu: Come state? Quanto tempo! ma il ben peggiore: Sono arrivati i Terroni. Insalutati ospiti, a sera smontammo tutto e ce ne andammo in Germania per non tornare mai più in quel campeggio.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 28

 (01.02.2009)

Primi anni 80, cominciavano i nostri grandi vagabondaggi per l'Europa. Avevamo comprato un pulmino Volkswagen e lo avevamo attrezzato a camper col cucinotto, il tetto alzabile, tendine, cassettoni, wc nautico e letti smontabili. Più avanti, negli anni, aggiungemmo anche una tenda da campeggio a quattro posti che si attaccava di lato, nella zona del portellone, consentendo così un miglior uso del mezzo una volta fermi nei campeggi. Con il pulmino, a mo' di bizzarri figli dei fiori, facevamo delle traversate senza fine, spaziando dalla Francia alla Norvegia. Prima di partire, organizzavo maniacalmente il viaggio, munito di cartine, mappe, liste degli alberghi: calcolavo spese e quanto altro, arrivando a misurare i litri e il costo della benzina per tutto il viaggio, imprevisti compresi e di solito la cosa funzionava egregiamente. Di quegli anni e di quei viaggi restano impresse nella memoria scene, sensazioni, emozioni fortissime; l'arrivo nel parcheggio di Schaffausen che si affacciava sul baratro prospicente alle Cascate Regina, sotto le quali si poteva andare con un battellino, e distinguevi tutto lo spettro dei colori dell'iride nel vagolare delle gocce disperse nell'aria dalla cascata. O l'arrivo, nel morire del giorno, alla frontiera olandese, dove - appena passata - il panorama cambiava drasticamente: la strada calava in basso immergendoci in un infinito tappeto di nebbia densa alta un metro da terra, dalla quale come una visione spuntavano le schiene di diecine di mucche nell'aria soffusa di uno spettacolare tramonto. Notti infinite sotto cieli sconosciuti, le stelle non più al loro posto, aromi e fragranze stranieri. A Chateau d'eau, avvolti da una pioggerella tiepida e uggiosa, mangiammo curiosi cubi di carne al sangue, profumatissimi, che si scioglievano in bocca, sotto una tettoia di legno su panche rustiche in riva al lago e un passero paffuto e malizioso saltellava imperterrito sul tavolo in cerca di ghiottonerie. A Copenhagen, dopo la visita al magnifico Parco dei Divertimenti, ci recammo a visitare la Sirenetta, che tranquilla lascia che le onde della battigia lambiscano lo scoglio sul quale è alloggiata, vicino al pontile, per scoprire che l'immagine da sempre amata e immortalata ritrae una statuina alta poco più di un metro.. E Madurodam? quell'incredibile parco a tema col mondo in miniatura, dove si poteva passeggiare tra monumenti celebri e cattedrali che ti arrivavano alle ginocchia, capendo al fine come debba sentirsi Godzilla quando va a Tokio in vena di far danni. Quanti campeggi visitati, quanti chilometri sotto quelle ruote.. quando passavamo la frontiera italiana - altri tempi, certo - ci sentivamo come dei veri contrabbandieri perché occultavamo in ogni interstizio possibile, da veri italiani doc, pacchi e pacchi di pasta Barilla necessari alla nostra sopravvivenza all'estero. Comprensibile, se si tiene conto che fuor dall'Italia si trovava solo in confezioni da 125 grammi e a prezzi proibitivi. Fossimo stati furbi ci si sarebbe arricchiti, o quantomeno si sarebbero limate bene le spese dei viaggi.. in realtà volevamo portare con noi solo un pezzo di Patria. Gastronomicamente parlando, beninteso, ma sempre cara!



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 27

 (31.01.2009)

A metà degli anni settanta, in una stagione di benessere economico generale, capitò a mio padre di conoscere la prima violinista del Teatro dell'Opera di Roma e di entrare con lei e la sua famiglia in amicizia. Questo ci diede la possibilità di ottenere una corsia preferenziale per uno dei rari ed ambitissimi posti di abbonamento alle prime poltrone della platea, cosa che notoriamente si tramanda in via generazionale e sono quindi estremamente difficili da trovare. Anche allora la cifra da pagare non era indifferente, nulla comunque in confronto ai prezzi odierni, del tutto inavvicinabili. Cominciai così, tutti i sabati pomeriggio, ad assistere alle rappresentazioni degli spettacoli in cartellone, entrando in un mondo sfavillante ed in un atmosfera ottocentesca; all'ingresso si potevano acquistare i programmi ed i libretti gialli editi dalla leggendaria Casa Ricordi con tutte le battute delle opere, ed era consuetudine seguirli con minuscole pilette semi celati dagli schienali delle poltrone. La Ricordi allora aveva vari negozi in città, a viale Giulio Cesare, a viale delle Milizie e alla stazione, che poi furono venduti a Maraldi e anni dopo acquisiti definitivamente dalla editrice Feltrinelli, che snaturò completamente il fasto antico e demodé dei negozi rendendoli certo moderni ma molto meno umani. Di solito prima della rappresentazione mi recavo a perder tempo nel foyer per concedermi un caffè guardando il bel mondo tirato a lucido per l'occasione, non che fossi da meno, con i miei completi scuri e le cravatte per le quali fin d'allora coltivai una sorta di mania feticistica, arrivando a possederne circa duecento di tutte le fogge, dalle più classiche regimental alle più ridanciane con Paperino o Brontolo, ottime per tenere alto il morale quando lavorai nei call center..Tre squilli annunciavano l'inizio della rappresentazione ed io attraversavo i tendaggi pesanti che dividevano il foyer dalla platea seguendo le mascherine fino alla mia poltrona in terza fila, un posto di corridoio centrale spettacolare per acustica e visibilità. Mi recavo a salutare la violinista nel golfo mistico scambiando con lei alcune facezie sui cantanti del momento poi mi predisponevo attento all'ascolto. Si faceva buio e l'orchestra attaccava i preludi, fino all'apertura del sipario, il momento magico che chiamavamo "l'alito del drago" perché l'atmosfera immobile e pesante della sala veniva improvvisamente scossa dallo spostarsi dell'aria e dal suo fruscìo: quanti allestimenti spettacolari, classicissimi, grandiosi, ho visto da allora. I direttori più celebrati, i cantanti migliori, le regie più attente alla tradizione! Vidi in quegli anni centinaia di opere, tutte le italiane godendomi le bizzarrie di Rossini, i toni crepuscolari del Puccini, la maestosità del Verdi e gli immortali capolavori di Wagner tra i quali la tetralogia dell'Oro del Reno anticipava i toni epici che ritrovai anni dopo nella lettura del Signore degli Anelli. Grazie alla cortesia della mia amica mi capitava a volte di intrufolarmi dietro le quinte e una sera ebbi la ventura di conoscere Montserrat Caballè, persona di grande dolcezza e amabilità che ritrovai, così tanti anni dopo, ad un recital al Teatro Ghione; quando passai da lei in camerino - incredibilmente - si ricordò di me e potemmo intavolare una breve discussione sullo stato generale del Teatro dell'Opera al tempo. Di quegli anni restano scolpite nella memoria le favolose scene di certe Aida, di certe Turandot e persino La Fanciulla del West con i cowboy a cavallo a rincorrersi realmente in una foresta perfettamente ricostruita. E che dire poi delle bizzarre sperimentazioni dei primi anni ottanta, quando la politica con le sue proteste già avvelenava sottilmente quel mondo ancorato alla sua peculiare antichità, sfornando assurdità del tipo "Aiuto, aiuto, arrivano i globolinks!", sorta di opera fantascientifica con alieni che scendevano tra il pubblico lasciando i melomani esterrefatti... Potente, infine, e sempre vivo è il ricordo dell'ultima apparizione sulle scene di Nureyev, con Il lago dei cigni, che vidi a Caracalla insieme a mia madre; all'ingresso dei diavoli travestiti da turisti giapponesi mi sventolarono sotto il naso un rotolo di biglietti da centomila per avere il biglietto e ammetto che fui lì lì per cedere alla vile pecunia ma tirai dritto, i posti erano esauriti da mesi, e mai me ne pentii. Nureyev poco tempo dopo ci lasciò segnando una ferita insanabile nel mondo dell'Opera e con amore malcelato conservo in un cassetto del cuore quei frammenti visivi dei suoi omaggi a Diaghilev e a Nijinsky...



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 26

 (26.01.2009)

Fine anni 60, le gioiose e lunghissime vacanze estive  ci tenevano col fiato sospeso già molto tempo prima della fine della scuola. Mio padre prendeva in affitto per tre mesi un appartamento ad Ostia, il mare di Roma, vicino alle zie che ne possedevano uno, poi restava in città a lavorare sui cantieri con mio nonno. Io, mia madre e mio fratello piccolo ci stabilivamo là, prendevamo il posto e la cabina allo stabilimento Marechiaro e ci dedicavamo a dimenticare l'anno trascorso sbizzarrendoci sul lungospiaggia. Nettissime ancora, a distanza di quasi quarant'anni, le memorie di quei giorni, il caldo impressionante dell'estate che perdurava continuo giorno e notte, l'odore denso degli olii abbronzanti che stagnava nell'aria, il frusciare sommesso delle onde interrotto dalle canzoncine dei jukebox - quelle favolose canzoni pop ancora così simpatiche da ascoltare. Ci portavamo di tutto nella cabina, panni, vestiti, thermos con il pranzo e non vedevamo l'ora di gettarci in acqua, quel mare limpido dove tra le gambe ci sgusciavano minuscoli pesciolini argentati. Piazzati sull'arenile, sotto lo sguardo vigile di mamma e delle zie, organizzavamo castelli intricati, tunnel dove far correre le palline trasparenti con le figurine dei calciatori all'interno, ci seppellivamo nella sabbia lasciando testa e piedi fuori al sole su cuscinetti improvvisati. Era uno spasso il tornare, al pomeriggio, passando davanti alle bancarelle dei libri usati dove facevo incetta di giornalini di Cino e Franco, del Vittorioso, di Mandrake e dell'Uomo Mascherato per poi leggerceli sul divano un po' ammuffito che troneggiava nel salotto-camera da pranzo. Ma quello che ci affascinava veramente era, quando la mattina presto, col fresco, ci recavamo allo stabilimento, andare a prendere i bomboloni caldi di cui subito incoscientemente e voracemente facevamo scorpacciate. C'era, e a dirla tutta ancora c'è, una pasticceria dal lucido bancone sovrastato da una bizzarra canalina metallica: ogni quarto d'ora si sentiva uno scampanìo, si apriva una porticina in alto nel muro ed un grosso bimotore arrivava con le eliche ronzanti, fino a fermarsi vicino alla cassa, si apriva il portellone e ne pioveva giù un nugolo di bomboloni alla crema e al cioccolato. Che gioia starsene lì col naso alzato, in attesa, quelle meravigliose attese che solo i bambini conoscono, quelle attese di qualcosa che a volte è fantastica solo per l'anima piccina che l'attende e mai la disattende. Ce ne facevamo dare una busta e forse solo la metà arrivava intera sulla spiaggia. Ogni giorno si incontravano bambini nuovi con i quali parlare dei rari giocattoli ricevuti, mostrare orgogliosamente le pistoline a spruzzo, le biglie - quante! - certosinamente custodite in sacchetti di rete blu, e poi tutti in acqua a far cagnara, imparando da soli i rudimenti del nuoto, lasciandosi cullare a galla fino a che sulla testa solo le rosse nuvole del tramonto scorrevano leggere. Ricordo una mattina prestissimo, papà era venuto la sera prima e ci aveva svegliato per andare ad accendere il televisore, un cassettone in bianco e nero come era in voga all'epoca; ci trascinammo davanti allo schermo ed ecco lì la sorpresa! Davvero, ma davvero qualcuno stava mettendo il primo piede umano sulla Luna? Che cosa incredibile, mi tornavano in mente gli antichi libri di Giulio Verne che avevo letto a casa e mi sembrava che nulla potesse rappresentare il futuro più di quelle immagini silenziose. Anni di sogni, quando qualsiasi cosa sembrava il massimo, un bombolone dorato, il ciclone che si portò via gli ombrelloni, un uomo sulla Luna, Fidenco che cantava dai jukebox o forse, ma sì, mio padre che per un giorno si svegliava insieme a noi e tutti insieme, con i nostri pantaloncini da spiaggia col timoncino ricamato in bianco e i secchielli e le palette, a vivere come ogni famiglia dovrebbe poter ricordare di aver vissuto.




ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 25

(26.01.2009)

 Gli anni Ottanta videro Roma protagonista di una formidabile kermesse, il Fantafestival, che tuttora prosegue annualmente in sale diverse, ma il gusto pionieristico dei primi anni si è definitivamente perduto. Ricordo le file incredibili per accaparrarsi un biglietto per le proiezioni che iniziavano dal primo pomeriggio sino a notte inoltrata in sale oramai scomparse, il cineclub Tevere di via degli Scipioni, una sorta di cripta per trecentocinquanta persone con le seggiole di legno, ex sala parrocchiale...il Planetario, che cambiava destinazione d'uso per la rassegna e ci vedeva stipati nella sala circolare armati di sedie d'ogni tipo...fino ai fasti del Capranichetta, con le sue colonne marmoree, gli stucchi e gli specchi d'epoca, due piani dove la gente si accalcava a fumare tra un tempo e l'altro sulle grandi scalinate - ora diventato una specie di resort per i politici dell'attiguo Quirinale e i loro convegni. Tra gli organizzatori spiccavano sempre Ravaglioli e Cozzi, che ci davano la possibilità di assistere a primizie internazionali, ma il vero divertimento per gli appassionati era la riscoperta dei film in bianco e nero degli anni cinquanta, quei deliziosi piccoli classici immortali come La Meteora Infernale, La Mantide Omicida, la serie di Quatermass, Radiazioni BX e cento altri. Ci si sbragava sulle poltroncine armati di ogni genere di conforto, dalle sigarette alle lattine, chi portava i panini, chi le macchine fotografiche, in un bailamme indecoroso e ridanciano e aspettavamo che partisse la consueta sigla registrata da Luigi Cozzi col suo vocione che annunciava "i marziani più verdi, i mostri più mostri.." e via così.  Una comunità di fans che rasentava la bolgia, quando secchiate di sangue solcavano gli schermi le urla e le risate  arrivavano al soffitto...Conservo ancora, con sottile piacere, i booklet e i programmi delle rassegne dell'epoca, chicche per cinefili con quotazioni da brivido e a volte riguardandoli torno a quegli spettacoli favolosi. Ricordo quando venne annunciata l'ultima proiezione mondiale di Tarantula, prima che la pellicola andasse al macero.. la fila fuori dal Planetario iniziò al mattino e al pomeriggio non c'era un biglietto neanche a pagarlo oro. Riuscii Dio sa come a sgattaiolare nella ressa e me lo vidi letteralmente steso in terra con la testa tra le scarpe dei primi spettatori, sotto lo schermo, pur di non perderlo. Che poi adesso , di notte, Tarantula ancora lo diano nei canali di Sky, bene, non vuol dire, volete mettere? Non c'è paragone! E quanti altri film che poi veramente andarono perduti, dei quali pochissimi conservano la memoria, come The Spawn From The Slythis col mostro uguale ad Alien, proiettato una sola volta durante una rassegna al cinema Clodio prima che lo stesso divenisse una sala di registrazione della Rai e poi alla fine una specie di supermercato cooperativo...O i meravigliosi "corti" di Saul Bass, il regista che ha realizzato moltissime sigle di testa per film come gli 007 e tanti altri. La rassegna continua ancora, anno dopo anno, credo sia arrivata alla 28° edizione, ma il mordente pionieristico e un po' cialtrone dei primi anni no, quello è fuori moda, ora è tutto laccato, preciso, algido. Ma le atmosfere ubriache e fumose dei cinema-bettoline , dei cine club, le cicche in terra, i bruscolini, e le apparizioni salutate dalle ovazioni dei fans in delirio di Cristopher Lee o di Vincent Price, quelle restano solitarie nel cuore di chi c'era. Fortunati noi..





ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 24

 (06.01.2009)

Iniziarono bene, in fondo, le nostre minuscole vacanze. Un padre e un figlio, bagagli nel cofano, pronti ad un inarrestabile voglia di stare insieme e divertirsi per quei pochi giorni permessi dai turni lavorativi. Un bel viaggio lungo fino a Cesena per portare il cucciolo a far cagnara a Mirabilandia, ristoranti per farlo strabiliare davanti a portate inconsuete, giocattolini ad ogni richiesta perché in fondo io posso sempre andare con le toppe ai pantaloni e le scarpe slabbrate ma lui ha il diritto ad essere felice. E poi un tranquillo fine settimana a Montepulciano, a fargli conoscere un vecchio amico ristoratore prodigo nel riempirci piatti e stomaci di pici in tutte le salse, i musei, i favolosi panorami della vecchia, cara Toscana. Ore liete, a trascinarci qua e là, nella placida indolenza di chi è intimamente soddisfatto delle poche cose che la vita concede, pago del vederlo ruzzare senza pensieri per le viuzze e nei negozi. E per finire la serata perché non portarlo al parco centrale di Montepulciano, tra chioschi, fiere paesane, stand, giardini, alberi, cespugli e quanto altro? Già, perché? Ed eccoci là, io seduto in panchina a fumare guardandolo correre sugli scivoli e le altalene con i bambini del luogo e dei villeggianti, mentre intorno la folla ondeggia lentamente da un capo all'altro della fiera. E lo vedi far comunella con un bambino napoletano, e chiacchierare, e bisbigliare con aria complice e sorniona e poi mettersi a correre per tutto il parco, allegri, ma senza la minima intenzione di tornare quando lo chiamavo. Così, dopo aver fatto un poco finta di niente, aver provato a chiamarlo per vedersi ridere in faccia e fuggir via, cominci a sentirti nervoso, e poi anche preso in giro e ti alzi e inizi ad andargli dietro per riprenderlo. Ma no, che subito fuggono via, svicolando tra i meandri del parco. E inizi a correre, vergognandoti come una bestia degli sguardi della gente, sentendo addosso il peso del ridicolo e della sua disubbidienza. E poi sparisce. E inizi a non vederlo più, lì, in quel parco improvvisamente troppo grande, troppo affollato. E scende la sera, e la notte la segue e tutto diventa così buio, tra le mille luci dei lampioni e degli stand. Troppo buio in tutta quella luce. E la senti, prima leggera, poi sempre più forte, la mano ghiacciata della paura che ti accarezza la nuca. E corri qua, e poi là, e da uno stand all'altro, con mille occhi per cercarlo e non trovarlo. Poi d'un tratto eccone la sagoma furtiva che corre lontano, e via, appresso, chiamandolo e loro scappano di nuovo. E non sai cosa fare, se allertare la polizia, se rivolgerti a qualcuno ma non c'è nessuno, mille persone ma nessuno che possa aiutarti, e ti ricordi il mestiere che fai e le cose che senti e che vedi tutti i giorni e che non sa lui. Lui che sta correndo chissà dove. Passa un ora, ne passano tre, la gente va via, e tu a correre vicino alle uscite per trovarlo prima che.. già, prima che. Prima che quello che non vuoi pensare, succeda. Prima che sparisca davvero. Alla fine è là, sono là, nascosti dietro un albero e inizi a urlare, a girargli intorno come un pazzo per prenderlo e te lo ritrovi piangente, terrorizzato persino, tra le braccia. Ma terrorizzato, scopri, da te perché l'altro bambino gli aveva detto che lo avrei picchiato e lui aveva paura. Di me. Di suo padre. Così lo prendi per mano, senza rivolgere la parola all'altro bambino i cui genitori neanche per un attimo si son curati di cercare, e lo trascini fuori verso l'albergo, e lo senti implorare di non picchiarlo. E fatichi a rispondere che no, non avrei voluto picchiarlo, volevo solo ritrovarlo, e te lo metti seduto sulle spalle, per sentirlo finalmente preso. Tenuto. Tuo. Tornati in camera alla fine si acquieta e si addormenta su di me, al mio calore che lo tranquillizza. E mentre le ore si susseguono guardi il soffitto in preda ad una furia cieca, pensando che se fossi stato armato qualcuno sarebbe morto. Pensando che se fosse sparito sarei morto io. Così, ringrazi Iddio che te lo ha ridato e, col vuoto dentro, aspetti il sorgere del sole e sai di dover essere grato alla vita per averti insegnato qualcosa di nuovo, come fa sempre quando non gli viene richiesto: il vero, reale significato del terrore.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 23

 (03.01.2009)

All'inizio degli anni 80 vissi certamente la stagione più piena dei miei amori giovanili, quelli insensati, bollenti, quelli che ti segnano e quelli che svaniscono come le bolle di sapone nella nebbia. Ricordo un giorno, tornavo dall'università con l'autobus, attraversando il centro, quando tra la folla stipata mi apparve qualcosa di molto simile ad una visione: una ragazza talmente bella che diventai rosso al solo guardarla in faccia. Lei se ne accorse perché sorrise, con un sorriso da aprire i cieli, con due occhi azzurri purissimi, boccoli biondi a farle da corona.. Dovevo essere completamente fuori di testa perché senza capire quel che facevo mi spinsi sino a lei, fissandola ma senza il coraggio di aprire bocca. Restai a fissarla fino alla mia fermata, lei era davanti a me, si aprirono le porte e si spostò, scesi convinto di averla dietro di me ma mi girai e la vidi, ridente, dietro le porte che si chiudevano. Mi salutò e il mio cuore fu perso. Da quel giorno mi aggirai intorno alla fermata dove ero salito la prima volta, tutte le mattine, per due mesi, non concludevo più nulla, non andavo più all'università, non avevo niente altro nel cervello che lei. Alla fine, stremato, decisi che avrei fatto un ultimo tentativo e poi avrei lasciato perdere; mi piazzai come al solito a via Tomacelli, alla fermata dell'autobus e le ore scivolarono lente. Poco prima di pranzo, mentre stavo per andarmene, lei scese alla fermata insieme ad una amica, si girò e mi vide, sorrise, mi venne incontro e come se non avessimo fatto altro prima nella vita, ci abbracciammo e ci baciammo. Ricordo il mio viso affondare nei suoi capelli d'oro, ricordo il suo profumo, la sua carne, le sue labbra. Ci prendemmo per mano e passammo la giornata insieme, quasi senza parlare. Era così, così doveva essere. Furono mesi deliranti, completamente persi uno nell'altra, poi i suoi amici, il gruppo che aveva, cominciarono a prendere più spazio di quanto ne desse a me. Io, pazzo come ogni giovane è, mi distaccai quel tanto che bastò per incrinare la sfera di cristallo dove avevamo chiuso i nostri sogni. Ma continuavamo a vederci e ad amarci. La ricordo, con i suoi stivali color dattero chiari e alti, le calze autoreggenti color smeraldo, la gonna di cotonina provenzale a fiorellini, la camicia bianca morbida, il golfino a cardigan rosa aperto e lei, con quegli occhi che avrebbero cristallizzato i cieli, che mi diceva : vieni, puoi farlo, ti voglio. E io che piangevo nel possederla, terrorizzato all'idea di perderla. E un giorno, ovviamente, la persi. Incontrò un altro, uguale a me, ironia della sorte, in tutto e per tutto, tranne per il fatto che era un finanziere e dunque aveva un lavoro che gli avrebbe permesso di mettere le basi per una famiglia. Del giorno del loro matrimonio, il primo maggio dell'81, rimane un quadro spaventoso che feci e che non ho mai esposto per la troppa violenza che racchiude. Ma il tempo passò e i loro guai iniziarono. Ricominciammo a sentirci, a vederci e tornammo ad amarci, con forza, con violenza, con la passione di due amanti ad un passo perennemente dalla fine.  La nostra relazione durò per qualche anno, più maturi, più disillusi, ma ancora innamorati così profondamente, da sapere che noi e solo noi eravamo il nostro destino. Fin quando cambiò lavoro, cambiò casa e andò ad abitare fuori Roma ed io non la incontrai più. Come un drogato in crisi d'astinenza, a volte, alzavo il telefono per sentire la sua voce nella segreteria telefonica e mi illudevo di avere ancora davanti a me quel suo viso meraviglioso, inchiodato come un icona nel ricordo di una giornata d'estate...io che andavo ai castelli con la mia ragazza dell'epoca e fermavo l'auto davanti ad un baracchino dove vendevano funghi per acquistarne e lei che scendeva dall'auto del fratello per lo stesso motivo, con un cappellino di paglia ornato da nastri azzurri e piccole ciliegie di plastica rosse del colore delle sue labbra, e i nostri occhi a supplicare di avere ancora un attimo di tempo solo per noi. Per poi svanire, lasciandomi col cuore a brandelli. Ed io a trascinarmi tra amori grandi e piccoli, tra esperienze di vita e decisioni giuste o sbagliate. Ma il mio cuore è con te, lo sarà sempre, così come eterna sarà la bellezza che ho fermato nei tuoi quadri. Quando noi saremo cenere la disumana grandezza di questo amore avrà lasciato parole indelebili nel libro della Vita e allora sì, che ci incontreremo di nuovo, e sarà per sempre. Intanto qui, io resto a scontare il peccato di averti perduta, una colpa che il tempo non cancella né perdona, in questo presente dove solo la forza di rendere un sogno, il Sogno, quello che altrimenti sarebbe solo e unicamente un ricordo come tanti, una ruga in più sull'anima, mi dà la capacità di non arrendermi alla realtà.  Nulla muore se non la lasciamo morire, nulla invecchia se gli occhi del cuore sanno restare giovani.




martedì 21 ottobre 2025

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 22

 (20.12.2008)

Passata l'infanzia non posso dire di aver passato dei Natali memorabili, troppi problemi, troppe le preoccupazioni per il lavoro o la famiglia. Certo uno dei più assurdi lo passai nel 1980 e non a casa, ovviamente. Ero vigile del fuoco e stavamo confinati in caserma, quattro disperati o pochi più, considerato che la maggior parte di noi era partita per andare a casa dai lor parenti. I giorni si trascinavano in una inattività mortale, tra esercitazioni di routine e servizi vari. Parecchi colleghi avevano però scovato il modo di far passare il tempo occupando e la mente ed il corpo con sistemi che definire esotici è dir poco. Uno in particolare giungeva tutte le mattine da casa con una cinquecento bianca tutta scassata, parcheggiava, alzava il sedile posteriore e cominciava a distribuire panetti di marjuana e bustine di bianca. I piccoli capannelli che si formavano intorno a lui si dileguavano rapidamente, disperdendosi nelle camerate e da lì a poco eccoteli vagare con quelle facce distratte e svagate per i portici della caserma. La cosa terrificante era quando dovevi fare le esercitazioni con le scale a ganci appeso ai balconi e chi doveva sorreggerti da sopra sapevi bene che dieci minuti prima si era andato a fare una pera nei cessi, così toccava scapolare nella fila per non incrociarli e non rischiare di imparare a volare da quattro piani, cosa che accadeva, e come. Roba ne correva, dappertutto e se anche non ti facevi c'era sempre qualcuno pronto a darti un assaggio gratis. Si arrivò al natale, un natale gelido oltre ogni dire, nella caserma sperduta vicino alla campagna e all'ippodromo. In cielo le stelle e in terra non il Redentore, ma noi, manipolo di gente dimenticata laggiù. Alla fine arrivò Walter con una scatoletta e cominciò a distribuire certe minuscole sigarette oppiate tibetane, a suo dire, ma chissà da dove arrivavano...e tra il freddo, il gelo, la notte che non passava mai e qualche bicchiere di troppo, là nel corpo di guardia, mi ci infilai in mezzo anch'io. Mezz'ora dopo ballavamo il rock'n'roll nel piazzale, da soli e senza musica, che quella che avevamo nel cervello - sballato - bastava e avanzava. Alle due il mondo era composto di stelle, vigili skizzati e cani ululanti nelle campagne, e non so quali di questi fossero più persi nel vuoto cosmico.. La cosa andò avanti ancora, anche se saltuariamente, ma si sa, la gioventù difficilmente va d'accordo con le regole del buon vivere e le compagnie che frequentavo fuori dal servizio militare, certo non presagivano nulla di buono. Ci si ritrovava in auto, in cinque e dopo pochi minuti la nube all'interno avrebbe dato dei punti a Seveso.. Un giorno uno di noi lo ritrovarono a casa, c'era rimasto secco, un buco di troppo. Ma ancora non ci bastava. Quello che tocca agli altri pensi sempre non tocchi a te. Fino al giorno che partii dalla piazzetta con la vecchia Giulia 1300, strafatto, pensando a cosa dire a casa, al pranzo con i parenti che certo avrebbero sentito un odore non proprio di tabacco tutt'addosso a me e svenni alla guida. Mi ripresi in tempo per guardare in faccia la morte che sotto forma di un autobus mi stava venendo addosso, e lanciai l'auto sul marciapiede, miracolosamente sgombro in quel momento. In quel che vomitai credo ci sia stata anche l'anima ma non toccai mai più un oncia di niente. E sono ancora qui per raccontarla.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 21

 (09.12.2008)

Me ne stavo lì, seduto su quella panchina, e non sapevo se ridere o piangere. Era cominciata, la fine, qualche anno prima; la notizia del  suicidio di Gardini era  arrivata come un fulmine a ciel sereno, eravamo in cantiere, davanti al palazzo in costruzione, sbiancammo tutti.  Da lì in avanti fu facile, fu tutta una discesa, l'edilizia si ripiegò su se stessa, i condominii iniziarono a non pagare più le rate dei lavori, l'ente per il quale lavoravamo tirò i remi in barca e non fece più nessuna gara, ogni settimana gli operai andavano pagati, gli enti, le tasse pure, le fatture fioccavano imperturbabili.  Poco tempo dopo mio padre si ammalò, una cirrosi epatica devastante, asintomatica, mai diagnosticata e mai curata spezzò un uomo che aveva dedicato la vita alla famiglia e al lavoro, rinnegandogli la dignità di una fine umana, crocifiggendolo in un letto d'ospedale per mesi, riducendolo ad una larva. Ci lasciò così. Ci riducemmo a cercare ogni minimo lavoro di ripristino edile per non lasciare in strada venti operai con le loro famiglie mentre i nostri conti andavano prosciugandosi fino al limite poi, quell'impresa che era stata di mio nonno, di mio padre, nostra, implose su sé stessa. Mi ritrovai a più di quarant'anni per la strada, ad inventarmi la vita ogni giorno, con un bambino piccolissimo ed una moglie impiegata capace di darmi del mantenuto e del pappone perché lei aveva lo stipendio mensile. Non ci si arrivava più, neanche a mangiare.  Ogni call center di Roma credo abbia sentito la mia voce lanciarsi al telefono in attacchi disperati ad ogni cliente che capitava: ero una belva, se mai qualcuno rispondeva non usciva vivo se non aveva optato per qualche cosa che proponessi. Giorni frenetici, folli, mesi a lavorare senza vedere una lira, truffe su truffe, uffici che andavi il giorno dopo e li trovavi chiusi, posti dove guadagnavi quasi tre milioni al mese, un inferno, da non capirci nulla. Sembrava, forse, davvero, che le cose potessero funzionare. I soldi giravano, il piccolo mangiava. Poi, di nuovo, grazie, è stato un piacere, non ci servi più. E di nuovo per strada, col gelo nello stomaco, col terrore cieco di non trovare qualcuno che mi desse un lavoro. E urla a casa, sempre, mai una parola di supporto o anche solo di comprensione. E ti ritrovi a guardare le vetrine passando le ore per strada entrando ovunque, pietendo un posto di commesso. E ti ritrovi a pensare che forse una rapina potrebbe anche riuscire. E ti ritrovi all'angolo della strada a pensare che forse, se tendi la mano, qualcuno i soldi per un panino te li darebbe anche.. E ti ritrovi a entrare nelle saune gay a chiedere di pulire i cessi per sentirti dire che grazie, ma non ne hanno bisogno. E alla fine, col vuoto nel cervello e nello stomaco, pensando a quel figlio che sta a casa dei suoceri dove tutti lavorano ma nessuno ti dice vieni a fare il manovale con me, vieni a fare il tappezziere con me, vieni a lavorare nel mio ufficio, ma ti guardano - maledetti - come uno scarafaggio quando prima, con due case, un deposito, tre camion, quattro macchine e venti operai chiedevano a TE di trovare lavoro a loro. E ti ritrovi lì, davanti all'ingresso della Festa dell'Unità a Castel Sant'Angelo, a trascinare i piedi come davanti ad un plotone d'esecuzione, e ti spingi avanti, verso gli stands, per chiedere se possono farti spazzare i pavimenti per portare a casa due soldi per mangiare, odiandoti dentro. E ti guardano, i compagni, e sorridono (lavorare meno, lavorare tutti?) e ti dicono che purtroppo queste cose sono delegate solo alle cooperative del partito. Così esci, ti siedi su quella panchina e non sai se piangere dalla disperazione o ridere per la felicità, per la dannata felicità di non aver lavorato per loro neanche crepando di fame. Così, vagando tra le migliaia di persone che in preda alla crisi economica affollavano bar, ristoranti, negozi, cinema, mi ritrovai davanti al portone dell'Istituto, ed entrai chiedendo se mai, per caso, non gli servisse qualcuno. Lo ricordo ancora, il Capitano che mi guarda e dice:- Ma lei lo sa che questo è un lavoro dove si muore? , ed io che fissandolo gli rispondo :- Ho un figlio che deve mangiare. Pensa che se mi avessero preso a fare il commesso in una libreria sarei qui adesso?   E il Capitano mi guarda e dice :- Ho capito, vada, è assunto.  Per questo porto la mia divisa con gioia e con rispetto. Perché so la bile che ho ingoiato, il sangue che ho sputato e la paura che ho conosciuto. E quando qualcuno deride qualcun altro perché è disoccupato gli laverei la bocca con la liscivia, perché so che vuol dire. Ci son passato.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 20

 (01.12.2008)

Una trentina d'anni fa, negli anni Settanta, anche noi giovani dell'epoca avevamo le nostre mode e i nostri oggetti di culto, che erano molto più importanti di quanto lo sono oggi. Intanto, perché adesso se qualcosa va di moda basta uscire e andarla a comprare, e questo la pone ad un livello di desiderabilità molto più basso. Non è forse la cosa irraggiungibile quella più desiderata?  Quindi ricordo con tanto  piacere i sacrifici che si facevano per ottenere quelle cose che ci sembravano così indispensabili per la logica dell'apparire...Con quanta gioia accoglievamo una minuscola radiolina a transistor che a fatica potevamo acquistare. Con che delizia ricevetti un paio di occhiali a goccia della Ray Ban, allora terribilmente in voga, che mio padre era riuscito a farsi portare dall'America da un aviatore dell'Alitalia al quale aveva fatto dei piaceri non indifferenti. Adesso li si trova persino sui banchetti all'angolo delle strade, ma all'epoca che bello poter girare con quelle magnifiche lenti, con che cura li piegavamo delicatamente per dargli un aria più vissuta e personale...E poi, lo spasso del girare tra i banchi di via Sannio alla ricerca dell'usato perfetto, i jeans Levi's, le camicie americane a quadretti con i bottoncini sul colletto stretto che si trovavano solo il mercoledì all'alba alle bancarelle del mercato del porto di Anzio e ti toccava partire nel buio per andarci.. e il giubbotto di raso e seta, bicolore, con le aquile e l'isola del Giappone ricamate a mano, e l'enorme tigre in campo rosa, che era stato di Ninetto Davoli nel film Uccellacci e Uccellini, di Pasolini, una reliquia per appassionati, che scovai per venticinquemila lire presso una cantina di abiti cinematografici usati dalle parti della stazione Termini.. come ci si atteggiava a mo' di rockabilly, in giro per la metropoli, con le basette lunghe, il ciuffo a banana, gli stivali alti sempre fuori dai jeans come James Dean...forse adesso sembreremmo ridicoli, giovani di un altra epoca, ma quanto si spopolava, ballando il rock sui tetti (robustissimi) delle vecchie Lancia con in bocca i sigaretti della Carino Ròssli austriaci, dolci e zuccherini, che importavo a pacchi al ritorno dai nostri vagabondaggi per l'Europa, hippy senza saper d'esserlo.. Buffe immagini di noi stessi, così fuori tempo, ma carichi di una formidabile gioia di vivere, senza tema del futuro, senza paura del domani, giovani, giovani per sempre. Bastavano un paio di Ray Ban, sì..



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO :19

 (21.11.2008)

Oramai stabilizzatici a Roma, finita la sistemazione della casa, cominciammo a prendere possesso della città girando in lungo e in largo e visitando posti, pranzando fuori nelle trattorie e andando - raramente - al cinema. Ricordo la prima volta che con mio padre vi andammo, era il cinema teatro Adriano, una struttura enorme, con poltrone sontuose, quattro file di gallerie, il loggione superiore, colonne, capitelli dorati, velluti rossi e posti a balconcino come nei teatri di una volta. Dopo la Guerra vi facevano il Varietà, solo più tardi si era trasformato in cinema. Ricordo che entrammo a film iniziato, come si usava, visto che poi potevi goderti anche tre spettacoli di seguito, attraversammo il corridoio e per errore invece di entrare centralmente sbucammo da sotto un tendaggio proprio sotto l'angolo destro dello schermo, uno schermo talmente gigantesco che ancora non mi pare vero. Alzai gli occhi nel buio, e restai incollato al muro nel vedere avanzare un immenso sottomarino. Era un film di fantascienza, si trattava de LA CORTINA DI BAMBU' con Dan Dureya...piacevole, avventuroso, in grado certo di stimolare la fantasia di un bambino. Rimasi estasiato nel rendermi conto della sontuosità e della grandezza del cinema, una meraviglia che accomunai solo al Teatro dell'Opera dove iniziai ad andare molti anni dopo. Quel cinema rimase nel mio cuore, tra i tanti, e negli anni continuai ad andarvi anche perché i corridoi labirintici, i posti nascosti nei balconcini, permettevano a frotte di giovanotti di godere di mirabolanti avventure erotiche a poco prezzo, insaporite dal gusto malandrino del farlo in mezzo a centinaia di spettatori. Passava la maschera che con quattro soldi elargiva cornetti Algida, bomboniere al cioccolato e popcorn, ma noi, per risparmiare, ci dilettavamo nel comprare i bruscolini - i semetti di zucca tostati e salati - con un cartoccetto dei quali passavi il pomeriggio. Al cinema teatro Giulio Cesare invece vendevano anche i mostaccioli, le castagne lessate e seccate, da tenere in bocca ciucciandole fino a fare diventare morbide. Gustosi cibi di una volta, ora declassati ad alimento da vendere allo zoo per lo spasso delle scimmie...Ricordo anche il famoso cinema Castello, vicino a Castel Sant'Angelo, con le seggiole di legno ed il tetto che si apriva nell'intervallo per fare uscire il fumo delle sigarette...decadde a cinema porno, poi il Vaticano lo acquistò e ne fece una sala d'accoglienza per i pellegrini dove proiettano documentari su Roma antica. Lo potete ancora vedere nel vecchio film ROMA di Fellini, girato lì quando ancora era come una volta, ai tempi della Guerra. Ora sono diventati tutti delle multisale, e anche se la visione e il comfort sono indubitabili, a me mancano quelle visioni protratte per interi pomeriggi, reiterate, e quegli angoli bui dove imparammo a fare l'amore condendo i nostri gemiti con gli spari di Clint Eastwood , quei cinema dove furbescamente dichiaravamo di avere più di quattordici anni per vedere Quattro Mosche di Velluto Grigio...La modernità ci ha rubato il romanticismo, la passione, forse persino il senso stesso del vedere un film..



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 18

 (19.11.2008)

Nella nostra grande casa romana, la casa della mia infanzia, ci potevamo correre e nascondere, dato il numero di camere. Mio padre, di solito sempre fuori sui cantieri, quando era presente, cercava di giocare con noi a quei piccoli semplici giochi che gli venivano in mente. In particolare, aveva notato quanto mi divertiva il fatto che costruisse una sorta di topolino con il fazzoletto, formando una pallina con due grandi orecchie, e me lo faceva comparire a sorpresa. Purtroppo una sera ebbe un idea, si nascose nella nostra camera da letto e, mentre mi incamminavo per il lungo corridoio buio per andare alla porta in fondo, il bagno, lo tirò in mezzo e io mi spaventai da morire. Scappai urlando e gli ci volle del bello  del buono per calmarmi. Povero papà, non pensava di fare nulla di male, voleva solo farmi divertire e non immaginava che mi aveva aperto la porta dell'inferno. Nel mio cervello di bambino da quella sera il tarlo della paura iniziò a fare il suo lavoro, incessante, geometrico, esponenziale. Il corridoio, che forzatamente dovevo attraversare, con tutte quelle porte che vi si affacciavano, era improvvisamente diventato una terra di nessuno, nido di mostri inenarrabili, che portava a quella porta in fondo, dietro la quale ero certo, assolutamente certo, albergasse qualcosa di orrendo. E accendevo tutte le luci, e camminavo rasente ai muri e sapevo che se pure fossi riuscito ad entrarci, non ne sarei uscito. Quando infine andavamo a letto, io e mio fratello, si scatenavano gli incubi, che silenziosi si avvicinavano alle coperte sotto le quali mi rannicchiavo in preda al panico, per sfiorarmi la schiena, per tirarmi da sotto, per portarmi via, via, in un luogo dove di me non sarebbe restato nulla. L'orrore andò avanti per anni, quello che era un bambino felice e spensierato lasciò che nella sua mente crescesse un groviglio spinoso di fobie tale da avvilupparlo del tutto. Ogni volta che avanzavo nel corridoio sembrava non dovesse mai finire e la porta, quella porta, la vidi aprirsi nel buio più di una volta, lentamente, in attesa. Dietro, mi aspettava il Bambino Spettro, roseo, lucido, ghignante, e non c'era luce che potesse salvarmi. Più grande, restato da solo a casa, vagavo brandendo un coltello preso dalla cucina e urlandogli di uscire che l'avrei ammazzato; spalancavo le porte delle camere a calci cercandolo come un forsennato. Questa furia smodata servì da catarsi e pian piano nuovi pensieri, trascinati con sé dalla pubertà, cancellarono quell'osceno groviglio di paure, permettendomi di vivere in maniera del tutto normale la mia vita casalinga. Forse il Bambino Spettro si era spaventato, o forse aveva assunto nuove fisionomie e aveva scelto la sua casa in nuovi angoli del mio animo in crescita, non so. Ora la casa della mia infanzia è andata perduta e vive nel ricordo, ma il Bambino so che è ancora in me. Lo so. Perché altrimenti non starei scrivendo queste righe con la pelle d'oca e i brividi alla schiena..



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 17

(12.11.2008)

Primi anni 60, iniziavamo ad ambientarci a Roma dopo il viaggio da Bari. La casa ci sembrava così grande, ingresso, sala da pranzo, studio, due camere a letto cucina, stanzino, due bagni...un immensità rispetto all'appartamento piccolo da cui venivamo. Tutti quei marmi, il parquet...certo, dalla finestra vedevamo una collina dove stavano facendo degli scavi e tutto quel verde oggi è annichilito dai palazzi. Non pensavamo, all'epoca, che quella casa in periferia sarebbe finita al centro di una zona tra quelle definite "bene", nel corso degli anni. Ancora sentivamo gli uccelli fuori dalle finestre. Forse per riempire un po' la casa e darci un pizzico di felicità, mio padre si convinse a comprarci un cagnolino, che andammo una sera a scegliere a casa di una persona che aveva avuto da poco una cucciolata: ricordo il grande cesto con tutti i cagnetti minuscoli e borbottanti, la bella madre dal grande e premiato pedigree. Ne scegliemmo uno, così amabile e lo portammo da noi, circondandolo di affetto. Diventò il cocco della famiglia, un gioioso cocker spaniel dal colore biondo che chiamammo Chicco. Si alzava a cercare sui mobili qualsiasi ghiottoneria gli nascondessimo, con un suo fiuto tutto speciale. Io e mio fratello, eravamo ancora davvero molto piccoli, tornavamo dalla scuola con il loro pullman che ci consegnava vicino casa, e mia madre usava venire a prenderci portando Chicco al guinzaglio. Eravamo sempre stati degli abitudinari, ligi alla precisione, agli orari e questo purtroppo si rivelò un errore. Un giorno il pullman ci sbarcò vicino casa, alla strada parallela, e noi due ci mettemmo buoni ad aspettare che mia madre arrivasse ma il tempo passava ed io non la vedevo. Inquieti, pensammo che non ci sarebbe stato niente di male ad andare a casa credendo che l'avremmo incontrata per la via, spinti anche dall'aspettativa golosa e tutta infantile, delle paste che mia madre aveva promesso di prenderci. Mano nella mano ci incamminammo guardando le vetrine e giungemmo a casa dove ci accolse mio padre, sbalordito e preoccupato nel vederci da soli. A quel punto anche noi cominciammo a pensare di aver fatto qualcosa di brutto, di sbagliato e non sapevamo se metterci a piangere, ci rifugiammo in camera nostra e ci mettemmo quieti a giocare con i nostri balocchetti. Poco dopo suonarono alla porta ed entrò mia madre con la gamba tutta insanguinata: era andata in pasticceria ed uscendo ci aveva veduto attraversare la strada. Impaurita aveva cominciato a correre ma, il pacchetto in una mano, Chicco al guinzaglio nell'altra che la tirava, era inciampata e caduta in terra e pur di vedere cosa ci stesse succedendo, aveva continuato a correre col ginocchio tagliato, perdendo sangue. A lei rimase una cicatrice sulla gamba ed io non riuscii mai più a mangiare i cannoli alla panna che aveva portato. Ci sono riuscito solo quarant'anni dopo, quando le confidai quanto mi sentissi ancora in colpa per quell'episodio che invece lei, col suo amore di madre, aveva dimenticato.. 




ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO ; 16

 (05.11.2008)

Agli inizi degli anni 70, mio padre pensò che, dato che ero portato per le lingue, valesse la pena farmi approfondire lo studio dell'inglese con delle conversazioni e si mise in cerca di un tutore valido. Finì per conoscere una anziana signora russa che abitava nei vecchi palazzi della Clodia, che volentieri si prestò alla bisogna. Ricordo ancora con emozione quei momenti soffusi nel suo appartamento ridondante di ninnoli e carabattole, di oggetti preziosi e ammennicoli leziosi, tappeti folti e drappeggi di tende di velluto, quadri ovunque, la luce sempre attenuata attraversata dal dorato pulviscolo di antiche memorie. La contessa Orloff Denisoff era stata dama di compagnia della moglie dello tsar Nicola ed era scampata avventurosamente alle epurazioni di Ecaterineburg, con pochi suoi familiari, attraversando l'Europa con la obbligatoria sosta a Parigi per venire a finire i suoi anni a Roma.  Con gioia e raffinato umorismo intavolavamo lunghe chiacchierate in pura, forbita lingua inglese, leggendo il Bardo su antichi libri pesantemente rilegati. Sempre leziosamente curata nei suoi vestimenti tradizionali, gli alti capelli bianchi raccolti a crocchie, mi introdusse alla cerimonia del tè delle cinque, ancora così in voga all'epoca. Amava preparare in un suo samovar arabescato un aromatico tè Oolong dal sapore carico e dal colore oscuro, e talvolta quando riusciva a procurarselo persino il favoloso Lapsang Souchong, dal retrogusto di castagna, ambrato e rilucente. La contessa godeva nel farmi trovare appena sfornati i suoi celebri pasticcini, delle tartellette di sfoglia traboccanti di una certa crema alle bacche di vaniglia che facevano migrare la mia fantasia nei fastosi saloni carichi di stucchi della reggia ormai svanita . Trascorrevamo ore preziose a scambiarci idee e facezie, ed io assumevo ai suoi occhi azzurri l'immagine d'uno dei regali pargoli che aveva così amorosamente accudito in tempi che parevano divenuti preistorici. Ascoltavamo musica classica dal suo grammofono, all'epoca già da tempo ero abbonato al teatro dell'opera e avevo visto molte opere e sinfonie, ed un grande rimpianto che porto in me è d'aver perduto l'occasione di recarmi con lei a vedere il Boris Godunov, giacché stetti male e benché lei avesse già trovato i posti per entrambi. L'ora del crepuscolo, preferita da entrambi, ci avvolgeva così, preconitrice d'un declino imminente e d'una separazione che non sarebbe tardata. Di lei mi resta ancora, reliquia cara e tangibile, un rarissimo libro dell'ottocento, rilegato in pelle verde e oro, istoriata a mano su tutto il fronte, intitolato Twentyfour hours under the Commonwealth, sulla cui prima pagina desiderò vergare, con lo stilo d'argento donatole dallo tsar, una memorabile dedica in inglese arcaico: "A te, a cui debbo dire grazie".




lunedì 20 ottobre 2025

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 15

(05.11.2008)

 Ricordo ancora mio padre negli anni della mia infanzia, con le sue sigarette Gallant, nella loro livrea rosso e blu, il pacchetto morbido nella tasca del giaccone di fustagno col quale andava a caccia. Tanto mi intrigavano che desideravo rubarne una e provare a fumarla, per sentirmi grande anch'io; papà ben comprese quel che stavo per combinare e ritenne giusto avvertirmi che non era una buona cosa per la salute ma al tempo stesso mi insegnò a fumare e mi regalò il primo pacchetto. Una sensazione nuova di libertà le accompagnava, il senso profondo della padronanza di me stesso e delle mie scelte, lontano dal luogo comune dell'emulazione bieca dei compagni ma la vicinanza a lui e ad un rito antico e carico di gesti e significati. La condivisione dell'offerta del fuoco, il dono magnanimo della sigaretta a chi la chiedeva, la ricerca dell'aroma perfetto che sempre mi ha ossessionato negli anni...mai legato ad un solo tipo, provai tutte le essenze sul mercato collezionando scatole e scatole meravigliose, le EVA dagli infiniti fiorellini colorati, le Turmac ovali nel pacchetto piatto, le fantastiche Camel ancora fatte con il Latakia affumicato negli stallaggi turchi, le Celtique col guerriero a spada alzata, le confezioni più colorate e disegnate che si potesse sognare, anni luce lontane dalla piatta monotonia di questi anni, le Pack al mentholo italiane, le MS Venezia commemorative con le gondole in bella vista. E le Sobranie russe col filtro d'oro e ognuna d'un colore diverso, verdi, viola, rosa...Mio nonno, povero caro, prediligeva le Muratti Ambassador ed io il sabato sera, manco fosse Radio Londra, mi incollavo alla radio per seguire il Fumorama Show di RadioMontecarlo, all'epoca l'unica radio "libera" che trasmetteva da fuori Italia, con Herbert Pagani che cantava la sigla inneggiando alle Muratti e mi sembrava una cosa grandiosa. Passavano gli anni, mio padre raccontava che nella sua giovinezza, gli anni della boxe, se non avevi le dita sporche di nicotina le donne neanche ti guardavano, e nonno raccontava di quando durante la guerra si usava fumare la cicca retta con uno spillo per arrivare in fondo e con i resti del tabacco si formavano nuove cartine per risparmiare. L'ineffabile gusto di giocare col fumo, farne cerchi nell'aria, espirarlo ed inspirarlo con le narici in un lieto ritorno, divertimenti minimi. Ed il pacchetto di Lucky Strike infilato nella manica rimboccata della t-shirt bianca come James Dean, o la sigaretta sull'orecchio alla Teddy Boy, quanta importanza ci davano, che pose, che scene con le ragazze e con gli amici. E lo Zippo? che dovevi accenderlo strusciandolo sui jeans, sempre bruciacchiati sulla coscia...La boccata profonda, liberatoria, prima di un esame, prima di chiedere a Lei di mettersi insieme, e poi i cinema affollati e fumosi, piccoli ritrovi della periferia alla Pasolini, tra le cartacce in terra e le cicche rosseggianti mentre si rubavano baci nascosti dagli schienali delle poltroncine. I nuovi sapori, corrotti dai composti chimici, avvelenati da dosi di nicotina sempre più massicce per schiavizzare, ma così ingenui nelle moderne confezioni tutte simili, quasi tristi, prive di mordente, di fascino, persino dalle Camel è scomparsa la città turca con le colonne ed i muezzin, chissà, forse per qualche fatwa...restano a tenere la barricata le leggendarie sigarette dell'AustriaTabak, con i loro profumi di vaniglia e cioccolata, o le novissime Sunday's Fantasy inglesi, figlie bizzarre del tabacco da pipa ben più conosciuto, che quando le annusi ti avvolgono in un alone di pasticceria fresca, travolgente...ma tutto questo resterà nei ricordi, accompagnando la gioiosa gioventù che mai ritorna, svanita, fuggita, lieve, come un sogno nell'alba, come l'acqua della Vita stessa che qualche misteriosa inesplicabile fessura nell'anima ha lasciato scivolare via, piano, piano...e la ricerca disperata di quel gusto, di quel sapore mitico della mia prima sigaretta sempre anelato, lo compresi bene un giorno, quando mi resi conto che era semplicemente diverso perché all'inizio, il fumo, non lo aspiravo. Tutto qui. Un trucco, e nulla più, che non avevo mai afferrato. I ricordi, in fondo, sono i trucchi che il cuore regala all'anima per ingannarla..



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 14

 (31.10.2008)

A metà degli anni settanta, facevo lo sbarazzino in sella ad una Vespa 50 special rosso fuoco, quella col faro quadrato, che adesso va tanto di moda tra i collezionisti, e andavo a tutta birra per la città consumando le suole delle scarpe in curve da brivido rette solo col piede in fuori a lasciare il nero: ma sentivo ovviamente il richiamo di quel qualcosa in più che mi avrebbe consentito una maggiore libertà di movimento e sopra tutto l'andare in due con la ragazza di turno. Perciò mi misi di punta a romper l'anima a quel brav'uomo di mio padre che alla fine, fattisi i conti in tasca e visto anche quanto disponevo del mio, si presentò un giorno con una meravigliosa Gilera 98 regolarità grigia metallizzata, che aveva trovata usata da un negoziante di Porta Castello, il cui aiutante, un certo Peppinello, godeva fama di gran trescatore ed era dunque riuscito  spuntarla ad un prezzo ancora accessibile alle nostre devastate tasche. Ovviamente mi precipitai subito a customizzarla, cambiando il manubrio con uno a corna di bue, mettendo una marmitta Silentium che rombava come una Harley, mettendo il famoso "gas rapido" della Tommaselli, il porta targa in caucciù da cross, la sella ribassata da corsa. Ne venne fuori un ibrido da combattimeno sul quale vissi anni fantastici, addirittura scalando senza sella e in prima l'enorme scalea Vezio Mezzetti, quella altissima che porta all'hotel Hilton, con sotto tutta la banda a applaudire: Ebbi la bella idea di montarci il tubolare para gambe cromato e un giorno mi salvò la pelle, quando mi arrivò addosso sparata una berlina da dietro una curva, aveva invaso la mia corsia e piegò completamente il para gambe ma me la scampai senza graffi. Avevo per la mia moto una specie di affiatamento extrasensoriale, ci capivamo al volo, ci salivo e sapevo che quel giorno mi sarei ammazzato perciò scendevo e andavo a piedi o in macchina.  Girarci era una gioia, era frenesia, era la vera libertà: libertà di portarci la ragazza, persino - ma sì! - di farci l'amore sopra, libertà di sentire il vento in faccia (il casco non era così obbligatorio, anche se mi ero fatto un bel Nava integrale nero). Poi un giorno, a piazza Pio XI, arrivai ai semaforo rosso e mi affiancai ad un altro biker, ci guardammo e cominciammo a sgassare.. scattò il verde e partimmo  accoppiati e su una ruota sola...a parte il fatto che da sinistra, passando tranquillamente con il rosso, mi arrivò addosso una Mercedes che trascinò via la moto per cinquanta metri e mi fece imparare a volare. Atterrai sulla schiena e l'ultima cosa che vidi furono le ruote delle auto che passavano a dieci centimetri dalla mia faccia.  La moto non si fece nulla, era una vecchia bastarda tutta d'acciaio, si piegò soltanto il pedale poggia piede sinistro e si ruppe la luce posteriore; io ci guadagnai un trauma cranico e il giaccone in cuoio da motociclista di mio padre (lui da giovane girava col Saturno 500...) grattato qua e là. Per parecchio tempo restammo entrambi a riposarci in garage, motociclisticamente parlando, salvo riprendere la fiducia e le scorribande tempo dopo. Quest'anno, come ricorda chi lesse i miei post di qualche mese fa, l'ho dovuta lasciare definitivamente, ed è a lei che dedico il mio ricordo con questa che è l'unica foto che ne conservo, trent'anni e venti chili fa. Non eravamo male, vero?



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 13

 (24.10.2008)

Verso la metà degli anni '70, in pieno liceo, capitava a volte di concedersi qualche fuga dalla scuola, magari in compagnia dell'innamorata di turno, per andare a fare lo struscio al centro, quasi sempre in via del Corso. Vi si affollavano i ragazzi che, mattinieri, avevano condiviso la bella pensata, tutti intenti ad esaminare con aria desiderosa le lussuose vetrine dalle inavvicinabili mercanzie, o a spettegolare l'un l'altro. I gruppetti sempre ben divisi, le femmine avanti  a far mostra di sé e i maschi intruppati dietro, a ridacchiare immaginando chissà quali prove di virilità che puntualmente restavano confinate nella sfera del sogno. Io amavo recarmi alla scalinata di Piazza di Spagna a prendere il sole e quando era il periodo della mostra delle azalee mi beavo dell'essere circondato dai vasconi onusti di piante rigogliose che emanavano l'inconfondibile sentore dell'estate in divenire. La colpevole gitarella fuor di scuola culminava , per me, quasi sempre in un preciso itinerario gastronomico, in via della Croce infatti c'era una panetteria che sfornava i formidabili Kranz austriaci, sorta di enorme pane dolce, dalla pasta gialla e ben lievitata, carico di armelline, pinoli, zibibbi passiti e canditi di cedro. Il tutto laccato di bagna al miele e granella di zucchero. Occhieggiavano tentatori dalle vetrine colme di Pretzel e salumi ed io non mancavo mai di mettermi in fila e comprarmi un Kranz intero, che di solito pesava sul mezzo chilo. Me lo nascondevo nella borsa di Tolfa sgangherata e mi trovavo un gradino soleggiato e pulito dal quale osservare il passeggio o, se ero in compagnia, incasinarmi in lunghe discussioni sui massimi sistemi o sulla possibilità di portarla al cinema per fare sesso...Ci voleva un po', ma il Kranz spariva tutto, e con quale gioiosa soddisfazione, nel mio stomaco goloso e lì giungeva quella blanda satollaggine, quella completa soddisfazione che ti rimetteva in pace col mondo. Il favoloso profumo dei Kranz è oramai fuori moda, raramente capita di trovarne, senza i canditi, ridotti a strana presa in giro di sé stessi, vaghi cornetti super cresciuti e incellophanati d'importazione. Persino la mostra delle azalee è diventata un soggetto a rischio, considerato che l'altr'anno sono riusciti a rubarsi i pesantissimi vasconi scendendo i gradini di Trinità dei Monti con un camioncino..



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 12

(21,10,2008)

 Nei primi anni 60, arrivati allora allora a Roma, con tutto il futuro ancora da inventarci, trovavamo mille semplici modi per economizzare il possibile ricavandone quelle minime gioie che ci facevano sentire dei gran signori. Quando era domenica, ad esempio, ce ne andavamo a Porta Portese, allora ancora ammantata di quell'alone leggendario, la patria dei trovarobe, sorta di girone dantesco dove ogni minuscola cosa sembrava preziosissima e realmente si poteva trovare di tutto, dal banco delle noccioline tostate lì per lì, al venditore di porcellini d'India con le loro gabbiette, ai vestiti militari che i soldati andavano a vendere alla fine della naja, alle reliquie dei Santi trafugate nelle chiese, in quell'aria che controsole brillava di un inesauribile pulviscolo creato dallo struscio di mille piedi sul selciato, dalla polvere vetusta delle carabattole...Con papà andavamo a fare il "provvistone" che consisteva nell'andare al banco dei giornalini usati e con pochi soldi portarci via un bustone di Mandrake, Uomo Mascherato, i favolosi Flash Gordon a puntate e gli Albi della Rosa che erano i predecessori dell'attuale Topolino, grandi più del doppio di quelli odierni, tant'è che dalle copertine ritagliavamo le facce di Paperino, Pippo e gli altri, così grandi, che le avevamo attaccate sui muri della nostra camera a mo' di poster. Nonno a volte si concedeva l'acquisto di un 45 giri che suonavamo a casa nel mobile Grundig stereofonico che aveva e che ancora troneggia nel mio salotto, tirato a cera, per durare altri sessant'anni. E a volte, quando era in vena di facezie, osava comprare dei dichi di stornelli romaneschi che ascoltava a pranzo con i miei, ma solo dopo aver mandato via me e mio fratello non volendo, Dio lo benedica, turbare le nostre orecchie innocenti con le avventure scapestrate di Alimò e Taccitù, i due fratelli indù...Papà custodiva gelosamente il "provvistone" e ce ne centellinava il contenuto giorno per giorno, così da evitare che gli dessimo fondo subito e noi ci infilavamo nel lettone dei miei, belli comodi, a leggere e a sognare. Molti di quei giornali li ho conservati, altri col tempo li ho ritrovati. Ricordo ancora quando regalai, già almeno trentenne, a mio padre, una sontuosa edizione anastatica di Cino e Franco, che lui aveva sempre vagheggiato da piccolo ma che per la mancanza di soldi non si era mai potuto concedere. La faccia che fece, da non crederci. Valse tutta la spesa, non indifferente, e lo riportai indietro alla sua infanzia..




ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO :11

(15.10.2008)

 Mentre gli anni sessanta avevano appena visto la luce, noi continuavamo la nostra vita in quel di Bari, mio nonno e mio padre con la loro impresa costruivano i palazzi dell'Università e io me ne andavo all'asilo dalle suore, una grande costruzione circondata da un piazzale in terra dove scendevamo per giocare.  Tutti  in fila con i nostri grembiulini, e una volta alla settimana ci recavamo in un ala dove, seduti educatamente su tante piccole panchette di legno, assistevamo alla proiezione cinematografica, che di solito era un film tipo La Bibbia, o I Dieci Comandamenti, tutte cose molto edificanti e soprattutto che ci davano la gioia di vedere uno spettacolo che altrimenti non avremmo potuto godere, dato che i cinema erano costosi e quando con mia madre passeggiavamo davanti al Teatro Petruzzelli, sul lungomare, ci sembrava una cosa di un lusso sfrenato con i suoi stucchi e i suoi decori e i sontuosi tendaggi che occhieggiavano nell'ingresso. Essendo piccolo e gracile, mi capitava di soffrire di mal di gola e alle tonsille, quindi su consiglio del medico di famiglia i miei presero decisioni drastiche ma, non sentendosela personalmente, una mattina mi affidarono a nonno che mi portò a fare una passeggiata con la promessa di una bustina di pescetti rossi di liquirizia; mi portò invece dal medico che mi mise sul lettino e cercò di addormentarmi col cloroformio. Spaventatissimo, gli sparai un calcio in faccia che ricordò per anni, poi riuscirono nell'impresa e mi risvegliai privo di tonsille ma con molta poca fiducia in mio nonno. Mamma, per consolarmi, mi preparava una sua piccola specialità, nata dall'esigenza - per noi un abitudine - di risparmiare: stendeva sul piano di marmo un velo di burro, metteva a sciogliere lo zucchero in un pentolino, poggiava sul burro degli stuzzicadenti poi ci colava sopra lo zucchero fuso che, stendendosi e raffreddandosi, dava vita a meravigliosi lecca lecca color oro, autentiche ghiottonerie  con le quali passavo le ore, mentre in tivù guardavo Magilla Gorilla e Braccobaldo e mio fratello si rotolava nel suo box. Adesso i lecca lecca li fanno con i coloranti e su quello che si vede in televisione, meglio sorvolare..



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 10

(15.10.2008)

 Nel profondo della Romagna c'era un paesino, tutto raccolto attorno alla piazza centrale col suo porticato e i minuscoli negozi che lo affollavano, il legnaiolo, la mesticheria, la rivendita dei tabacchi con le nazionali e le esportazione da vendere sciolte...era l'inizio del novecento e i miei nonni, allora bambini, giocavano come gli altri loro compagni con il cerchio, la palla o a rincorrersi. Nonno bambino seduto sul seggiolo del fotografo a farsi una lastra in nitrato d'argento vestito con un costumino da pastorello, campeggia ancora nella mia camera da letto. Le Guerre erano  un brutto sogno da ubriachi ancora da venire e tra il lavoro nei campi e la visita in chiesa la domenica il tempo passava quieto, poi crebbero, si sposarono e la bufera imperversava nel mondo, mio padre bambino a fare il Figlio della Lupa sognando di diventare Moschettiere del Duce e le sorelle intente a brigare per portare avanti la casa. Ricordo i lunghi viaggi con l'alfa verde 1600 di nonno, da Roma a Russi, per tornare a trovare la vecchia zia suora, che mi riempiva di santini e di stampini di gomma da inchiostrare per imparare a disegnare. Si radunavano i parenti, nonna lavorava al vecchio tombolo di sua madre quei meravigliosi ricami che avrebbe fatto per tutta la vita, si creavano montagne di tortellini da cuocere nel grasso, sapido brodo di gallina, che bastava il profumo a sanare tutte le malattie. A ottobre si festeggiava la Fera dei Sitt Dulur, e tutti ci si riversava in piazza a sentire la banda, quella piazza ormai irriconoscibile con una fontana e un giardino al centro, dove ora si suona il rock metallico. I parenti andavano alla fiumara a caccia di rane e le preparavamo fritte, con quel loro gusto di coniglio così delicato, e poi si uccidevano i maiali ed erano salami, prosciutti  lasciati nelle cantine ad asciugare e le fantastiche salsicce che spalmavamo sulle grandi fette di pane sfornato da poco. Ora lassù, di noi, non c'è più nessuno, l'antico albero genealogico nobiliare diluito e svanito nelle ceneri di archivi comunali distrutti dalla Guerra, vaghe eco risuonano ancora nei registri di piccole parrocchie di campagna dove i nuovi giovani preti non riescono neanche a leggere le calligrafie ornate in uso all'epoca...E nei campi che ancora, grazie a Dio, resistono all'espansione urbana, svettano gli stessi fiori che mio nonno coglieva timoroso per mia nonna, sotto quel sole d'agosto che spacca le teste come nei libri di Don Camillo, e quando penso a loro spero crescano per sempre.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 9

 (13.10.2008)

Nella nostra casa a Bari, di giocattoli ce n'erano pochi, non avevamo grandi cose. C'era l'orsetto di pezza marrone e il topolino giallo di gomma con il quale facevo il bagno e che gettavo sempre dalla finestra, costringendo mio padre a scendere dal meccanico sottostante a riprenderlo. Fu quindi una grande gioia quando un giorno papà si presentò con una pecorella a dondolo che scatenò le mie fantasie minuscole; avevamo l'abitudine di starcene tutti seduti davanti alla televisione, la sera, un vecchio cassettone in bianco e nero, dove guardavamo gli unici due canali a disposizione della Rai, che invariabilmente trasmettevano un western al lunedì, un giallo al martedì e lo sport il mercoledì. Quando ce ne stavamo lì tranquilli sul divano con le zampette in ottone in puro stile anni 60, papà disegnava e ritagliava, per poi distribuirceli, dei biglietti di cinema e noi ci illudevamo di esserci, visto che al cinema - i soldi non bastavano mai - non ci si andava che una o due volte all'anno. Il western con John Wayne era più che un abitudine, era quasi un rito perciò quando potevo mettermi il costume da cow boy che mi avevano regalato i nonni a carnevale e salire sulla pecorella a dondolo impersonavo gli eroi del momento e la camera diventava una prateria. Mio fratello, da dentro il box, piccolissimo, con delle penne in testa tenute con l'elastico fingeva di essere Toro Seduto. Così, conservando nel cuore quelle antiche meraviglie, moltissimi anni dopo mi misi anche io a cercare un dondolo per mio figlio, ma ci credereste? A Roma sembravano estinti...dopo una lunga ricerca ne trovai uno sugli annunci di un giornale, attraversai la città e finalmente trovai il cavallino che cercavo, me lo nascosi in macchina e quando il piccolo dormiva la notte, passavo le ore a pulirlo, smacchiarlo, spazzolarlo e a sistemare le viti rugginose del dondolo. Quando lo misi davanti al pacco, enorme per lui, era spaventato ma una volta aperto, aveste visto la sua faccia...valse tutto il tempo perduto. Ci gioca ancora di tanto in tanto, quando non fa il bagno col mio topo giallo o non dorme col mio orsetto di pezza. Certo, li avevo conservati per lui, era ovvio..



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 8

 (11.10.2008)

Mentre gli anno 60 davano i loro primi vagiti, noi iniziavamo la nostra nuova vita a Roma, pieni di speranze per il futuro e nei fine settimana facevamo viaggi più o meno lunghi, sempre proiettati in quell'ansia di non stare fermi che con gli anni ci avrebbe condotti in giro per tutta l'Europa, come degli hippies ante litteram. D'inverno andavamo a Marsia, a Campo Staffi, al Terminillo, ovunque ci fosse la neve, con la Dauphine blu carica di vestiti, pacchi, gli sci pesanti sul portabagagli, termos e tutto quel che ci passava per la testa. Avevo anche uno stupendo slittino in legno, certo non si chiamava Rosebud ma era bello lo stesso, o così pensavo fino al giorno che scivolando non ci restai con la mano sotto la lama e i pianti si sprecarono...Mio padre chino a montare le catene approfittava della sosta per invitarci a riempirci i polmoni con quell'aria gelida e sopraffina che ci faceva diventare rossi e lacrimosi. Ci si divertiva a fare nuvole con l'alito e ad infagottarci di maglioni, ne avevo uno bianco nero grigio disegnato a stelle che portai fino al liceo, costringendo mia madre di anno in anno a cucirgli altri pezzi per allungarlo. Chissà mai dove è finito. Ci illudevamo di essere degli sciatori divagandoci sulle collinette basse e prendendo ogni tanto la funivia, godendoci le vertigini. Quando si faceva ora di pranzo ci radunavamo sotto un albero e mia madre preparava il tavolo pieghevole, distribuendo piatti di cappelletti al sugo dal thermos e mio padre si scaldava col vino rosso delle nostre vigne.  Dormivamo a turno, sazi della giornata, del calore che ci scaldava i cuori, baloccandoci a dare briciole di pane a certi minuscoli topolini arboricoli che ci venivano sfacciati tra i piedi. Le montagne sembravano immense, il solo nominarle ci sembrava qualcosa di fantastico, le tre cime di Lavaredo, il passo del Pordoi...Quel colore del cielo mi avvolge ancora nella sua immensità, non esistevano confini a quel che avremmo potuto vedere, ai luoghi dove avremmo viaggiato...Mai mio padre ci fece mancare qualcosa, nel suo piccolo, e quel piccolo per noi era moltissimo. Un panetto di sciolina sembrava un tesoro da conservare e i cappelleti con la carne e il grana, mangiati lì, in quei momenti magici, non li avrebbe battuti neanche il più grande degli chef. Alberi della mia infanzia, che piovevate cristalli di neve sul mio cappellino austriaco, crescete ancora lassù? Regalate la vostra ombra alla memoria di mio padre.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 7

 (09.10.2008)

Poco dopo essere venuti a Roma, mio nonno pensò che ai suoi nipoti facesse bene godere della campagna durante il lungo periodo delle vacanze scolastiche e trovò un grande appezzamento a Velletri dove costruì una villetta, un pozzo, un grande garage con dietro il gioco delle bocce; tutta la terra venne messa a filari di vite, e molti alberi da frutto sorsero qua e là. Costruì persino un pollaio che forniva una montagna di uova, tante da non sapere cosa farne, e allora nonna cucinava torte, immense distese di fettuccine, pirofile di creme, bottiglie di zabaione dal color giallo così intenso che facevano venir fame al solo vederle. La grande cantina alloggiava le botti piene del nostro vino, un bianco sottile e aromatico, e bottiglie e bottiglie di fragolino, ma fatto veramente con l'uva fragola, non come oggi che è proibito e ne ha solo l'aroma...Il grande pergolato coperto di uva pizzutella ospitava il tavolo di marmo dove la grande comitiva dei parenti si riuniva nel fine settimana per pranzi e cene che finivano sempre con tutti distesi sulle sdraio a prendere il sole e quando a notte si tornava a Roma, alla radio ascoltavamo i cori da tutto il mondo e la domenica sportiva...Le notti, lì, erano un sogno, il tempo si dilatava immenso, restavamo fuori sulle sedie, imbacuccati in plaid e coperte, a guardare le stelle. Quanti di voi hanno mai veramente visto la Via Lattea in tutto il suo splendore? Quarant'anni fa riluceva dal cosmo, infinita, la strada prediletta per gli angeli ed i sogni di noi bambini, e mio padre ce la spiegava paziente, nell'avanzare della notte che un poco ci incuteva timore, persi laggiù nel buio della campagna, con le nottole che volavano vicino al lampione e i cani selvatici che ci scrutavano passando oltre il cancello. Con l'autunno cominciava la raccolta delle nocchie che stendevamo a seccarsi nel garage, erano un mare, così buone, ci divertivamo a trovare quelle forate per dar la caccia ai bruchi. Giocavamo con le grandi mantidi religiose che venivano al pozzo in cerca di umidità e dall'alto del nostro colle lo sguardo spaziava su tutti i Castelli romani, fino al mare; aspettavamo il passare - lontanissimo - del treno sul ponte sospeso per sapere a che ora fosse la merenda e poi correvamo da nonna e da mia madre a chiedere i biscotti e il latte...Il televisore in bianco e nero ci trasmetteva Braccobaldo e ci sembrava che la felicità fosse tutta lì, in quei giorni che non avevano inizio né fine, tra i cespugli di more e i filari dell'uva. Quando trent'anni dopo mio nonno morì, mia zia - che aveva avuto intestata come dote la proprietà ma non ci veniva mai perché viveva ancora a Bari - vendette tutto subito senza che mio padre facesse in tempo a salvarla per noi, così, a scatola chiusa, con tutte le cose care lasciate nel tempo, con tutte le botti di vino pregiato, e col ricavato comprarono tre cappotti di montone shearling ed una macchina, che un mese dopo mio zio sfasciò in un incidente. Ed ora, se a volte ci passo davanti, vedo tutto il podere raso al suolo e trasformato in un semplice campo d'erba all'inglese da chi la comprò.


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