(05.11.2008)
Agli inizi degli anni 70, mio padre pensò che, dato che ero portato per le lingue, valesse la pena farmi approfondire lo studio dell'inglese con delle conversazioni e si mise in cerca di un tutore valido. Finì per conoscere una anziana signora russa che abitava nei vecchi palazzi della Clodia, che volentieri si prestò alla bisogna. Ricordo ancora con emozione quei momenti soffusi nel suo appartamento ridondante di ninnoli e carabattole, di oggetti preziosi e ammennicoli leziosi, tappeti folti e drappeggi di tende di velluto, quadri ovunque, la luce sempre attenuata attraversata dal dorato pulviscolo di antiche memorie. La contessa Orloff Denisoff era stata dama di compagnia della moglie dello tsar Nicola ed era scampata avventurosamente alle epurazioni di Ecaterineburg, con pochi suoi familiari, attraversando l'Europa con la obbligatoria sosta a Parigi per venire a finire i suoi anni a Roma. Con gioia e raffinato umorismo intavolavamo lunghe chiacchierate in pura, forbita lingua inglese, leggendo il Bardo su antichi libri pesantemente rilegati. Sempre leziosamente curata nei suoi vestimenti tradizionali, gli alti capelli bianchi raccolti a crocchie, mi introdusse alla cerimonia del tè delle cinque, ancora così in voga all'epoca. Amava preparare in un suo samovar arabescato un aromatico tè Oolong dal sapore carico e dal colore oscuro, e talvolta quando riusciva a procurarselo persino il favoloso Lapsang Souchong, dal retrogusto di castagna, ambrato e rilucente. La contessa godeva nel farmi trovare appena sfornati i suoi celebri pasticcini, delle tartellette di sfoglia traboccanti di una certa crema alle bacche di vaniglia che facevano migrare la mia fantasia nei fastosi saloni carichi di stucchi della reggia ormai svanita . Trascorrevamo ore preziose a scambiarci idee e facezie, ed io assumevo ai suoi occhi azzurri l'immagine d'uno dei regali pargoli che aveva così amorosamente accudito in tempi che parevano divenuti preistorici. Ascoltavamo musica classica dal suo grammofono, all'epoca già da tempo ero abbonato al teatro dell'opera e avevo visto molte opere e sinfonie, ed un grande rimpianto che porto in me è d'aver perduto l'occasione di recarmi con lei a vedere il Boris Godunov, giacché stetti male e benché lei avesse già trovato i posti per entrambi. L'ora del crepuscolo, preferita da entrambi, ci avvolgeva così, preconitrice d'un declino imminente e d'una separazione che non sarebbe tardata. Di lei mi resta ancora, reliquia cara e tangibile, un rarissimo libro dell'ottocento, rilegato in pelle verde e oro, istoriata a mano su tutto il fronte, intitolato Twentyfour hours under the Commonwealth, sulla cui prima pagina desiderò vergare, con lo stilo d'argento donatole dallo tsar, una memorabile dedica in inglese arcaico: "A te, a cui debbo dire grazie".

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