(19.11.2008)
Nella nostra grande casa romana, la casa della mia infanzia, ci potevamo correre e nascondere, dato il numero di camere. Mio padre, di solito sempre fuori sui cantieri, quando era presente, cercava di giocare con noi a quei piccoli semplici giochi che gli venivano in mente. In particolare, aveva notato quanto mi divertiva il fatto che costruisse una sorta di topolino con il fazzoletto, formando una pallina con due grandi orecchie, e me lo faceva comparire a sorpresa. Purtroppo una sera ebbe un idea, si nascose nella nostra camera da letto e, mentre mi incamminavo per il lungo corridoio buio per andare alla porta in fondo, il bagno, lo tirò in mezzo e io mi spaventai da morire. Scappai urlando e gli ci volle del bello del buono per calmarmi. Povero papà, non pensava di fare nulla di male, voleva solo farmi divertire e non immaginava che mi aveva aperto la porta dell'inferno. Nel mio cervello di bambino da quella sera il tarlo della paura iniziò a fare il suo lavoro, incessante, geometrico, esponenziale. Il corridoio, che forzatamente dovevo attraversare, con tutte quelle porte che vi si affacciavano, era improvvisamente diventato una terra di nessuno, nido di mostri inenarrabili, che portava a quella porta in fondo, dietro la quale ero certo, assolutamente certo, albergasse qualcosa di orrendo. E accendevo tutte le luci, e camminavo rasente ai muri e sapevo che se pure fossi riuscito ad entrarci, non ne sarei uscito. Quando infine andavamo a letto, io e mio fratello, si scatenavano gli incubi, che silenziosi si avvicinavano alle coperte sotto le quali mi rannicchiavo in preda al panico, per sfiorarmi la schiena, per tirarmi da sotto, per portarmi via, via, in un luogo dove di me non sarebbe restato nulla. L'orrore andò avanti per anni, quello che era un bambino felice e spensierato lasciò che nella sua mente crescesse un groviglio spinoso di fobie tale da avvilupparlo del tutto. Ogni volta che avanzavo nel corridoio sembrava non dovesse mai finire e la porta, quella porta, la vidi aprirsi nel buio più di una volta, lentamente, in attesa. Dietro, mi aspettava il Bambino Spettro, roseo, lucido, ghignante, e non c'era luce che potesse salvarmi. Più grande, restato da solo a casa, vagavo brandendo un coltello preso dalla cucina e urlandogli di uscire che l'avrei ammazzato; spalancavo le porte delle camere a calci cercandolo come un forsennato. Questa furia smodata servì da catarsi e pian piano nuovi pensieri, trascinati con sé dalla pubertà, cancellarono quell'osceno groviglio di paure, permettendomi di vivere in maniera del tutto normale la mia vita casalinga. Forse il Bambino Spettro si era spaventato, o forse aveva assunto nuove fisionomie e aveva scelto la sua casa in nuovi angoli del mio animo in crescita, non so. Ora la casa della mia infanzia è andata perduta e vive nel ricordo, ma il Bambino so che è ancora in me. Lo so. Perché altrimenti non starei scrivendo queste righe con la pelle d'oca e i brividi alla schiena..

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