martedì 21 ottobre 2025

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 21

 (09.12.2008)

Me ne stavo lì, seduto su quella panchina, e non sapevo se ridere o piangere. Era cominciata, la fine, qualche anno prima; la notizia del  suicidio di Gardini era  arrivata come un fulmine a ciel sereno, eravamo in cantiere, davanti al palazzo in costruzione, sbiancammo tutti.  Da lì in avanti fu facile, fu tutta una discesa, l'edilizia si ripiegò su se stessa, i condominii iniziarono a non pagare più le rate dei lavori, l'ente per il quale lavoravamo tirò i remi in barca e non fece più nessuna gara, ogni settimana gli operai andavano pagati, gli enti, le tasse pure, le fatture fioccavano imperturbabili.  Poco tempo dopo mio padre si ammalò, una cirrosi epatica devastante, asintomatica, mai diagnosticata e mai curata spezzò un uomo che aveva dedicato la vita alla famiglia e al lavoro, rinnegandogli la dignità di una fine umana, crocifiggendolo in un letto d'ospedale per mesi, riducendolo ad una larva. Ci lasciò così. Ci riducemmo a cercare ogni minimo lavoro di ripristino edile per non lasciare in strada venti operai con le loro famiglie mentre i nostri conti andavano prosciugandosi fino al limite poi, quell'impresa che era stata di mio nonno, di mio padre, nostra, implose su sé stessa. Mi ritrovai a più di quarant'anni per la strada, ad inventarmi la vita ogni giorno, con un bambino piccolissimo ed una moglie impiegata capace di darmi del mantenuto e del pappone perché lei aveva lo stipendio mensile. Non ci si arrivava più, neanche a mangiare.  Ogni call center di Roma credo abbia sentito la mia voce lanciarsi al telefono in attacchi disperati ad ogni cliente che capitava: ero una belva, se mai qualcuno rispondeva non usciva vivo se non aveva optato per qualche cosa che proponessi. Giorni frenetici, folli, mesi a lavorare senza vedere una lira, truffe su truffe, uffici che andavi il giorno dopo e li trovavi chiusi, posti dove guadagnavi quasi tre milioni al mese, un inferno, da non capirci nulla. Sembrava, forse, davvero, che le cose potessero funzionare. I soldi giravano, il piccolo mangiava. Poi, di nuovo, grazie, è stato un piacere, non ci servi più. E di nuovo per strada, col gelo nello stomaco, col terrore cieco di non trovare qualcuno che mi desse un lavoro. E urla a casa, sempre, mai una parola di supporto o anche solo di comprensione. E ti ritrovi a guardare le vetrine passando le ore per strada entrando ovunque, pietendo un posto di commesso. E ti ritrovi a pensare che forse una rapina potrebbe anche riuscire. E ti ritrovi all'angolo della strada a pensare che forse, se tendi la mano, qualcuno i soldi per un panino te li darebbe anche.. E ti ritrovi a entrare nelle saune gay a chiedere di pulire i cessi per sentirti dire che grazie, ma non ne hanno bisogno. E alla fine, col vuoto nel cervello e nello stomaco, pensando a quel figlio che sta a casa dei suoceri dove tutti lavorano ma nessuno ti dice vieni a fare il manovale con me, vieni a fare il tappezziere con me, vieni a lavorare nel mio ufficio, ma ti guardano - maledetti - come uno scarafaggio quando prima, con due case, un deposito, tre camion, quattro macchine e venti operai chiedevano a TE di trovare lavoro a loro. E ti ritrovi lì, davanti all'ingresso della Festa dell'Unità a Castel Sant'Angelo, a trascinare i piedi come davanti ad un plotone d'esecuzione, e ti spingi avanti, verso gli stands, per chiedere se possono farti spazzare i pavimenti per portare a casa due soldi per mangiare, odiandoti dentro. E ti guardano, i compagni, e sorridono (lavorare meno, lavorare tutti?) e ti dicono che purtroppo queste cose sono delegate solo alle cooperative del partito. Così esci, ti siedi su quella panchina e non sai se piangere dalla disperazione o ridere per la felicità, per la dannata felicità di non aver lavorato per loro neanche crepando di fame. Così, vagando tra le migliaia di persone che in preda alla crisi economica affollavano bar, ristoranti, negozi, cinema, mi ritrovai davanti al portone dell'Istituto, ed entrai chiedendo se mai, per caso, non gli servisse qualcuno. Lo ricordo ancora, il Capitano che mi guarda e dice:- Ma lei lo sa che questo è un lavoro dove si muore? , ed io che fissandolo gli rispondo :- Ho un figlio che deve mangiare. Pensa che se mi avessero preso a fare il commesso in una libreria sarei qui adesso?   E il Capitano mi guarda e dice :- Ho capito, vada, è assunto.  Per questo porto la mia divisa con gioia e con rispetto. Perché so la bile che ho ingoiato, il sangue che ho sputato e la paura che ho conosciuto. E quando qualcuno deride qualcun altro perché è disoccupato gli laverei la bocca con la liscivia, perché so che vuol dire. Ci son passato.



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