mercoledì 22 ottobre 2025

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 29

 (11.02.2009)

Anni Ottanta, il "Plein Air" impazzava e la moda del campeggio spopolava grazie anche alla possibilità di fare grandi viaggi contenendo le spese. Ci armavamo di tutto il ben di Dio possibile e stipavamo il pulmino Volkswagen verde militare, col tetto alzabile e le bizzarre tendine a fiorellini in ogni angolo consentito poi si partiva, carichi sopra tutto di allegria e aspettative. Il pulmino macinava tranquillo lunghi chilometri d'asfalto, ci si divertiva a riconoscere il passaggio da una regione all'altra d'Italia dalla conformazione dei monti e delle campagne. Quando attraversavamo la Toscana era sempre una gioia, quelle immense colline con quei colori inconfondibili, i verdi digradanti nell'azzurro, i gialli senape delle messi, il celebre Terra di Siena bruciato che indicava le coltivazioni messe a maggese. E quegli sparuti grappoli di alberi immersi solitari in cima a favolose colline, come eterne sentinelle delle greggi, dormienti nella calura d'agosto. Si tagliava l'Umbria con i suoi panorami schivi e irti di fabbriche, gironzolavamo nell'Emilia Romagna così piatta e verde alla ricerca delle nostre radici ataviche, in quei paesini raccolti attorno alla piazza ed al suo portico, con quei fiumiciattoli dove le rane si stipavano gracidanti. E si andava su, sempre più su, sino ai confini verso uno dei nostri campeggi favoriti, meta già da anni delle nostre vacanze e spesso ultima tappa in patria prima di immergerci nell'Europa sconosciuta, forti del cambio favorevole e della mia conoscenza delle lingue. Ci fermavamo per più giorni nel campeggio di Campodolcino, vicino Chiavenna ed al favoleggiato porto franco di Livigno, meta preferita dai vacanzieri perché la benzina costava due lire e si compravano stecche di sigarette, liquori e quanto altro a pochissimo. Si giungeva al campeggio dopo la lunga strada montuosa che sfociava in una vallata circolare coronata dai monti, le palazzine della reception, della mensa e dei bagni ancora in costruzione; una vista meravigliosa, file e file di roulotte e di tende ad attenderci. La gente sempre quella che incontravamo da anni e con i quali avevamo stretto un certo qual rapporto di amicizia annuale, il Panzieri - una sorta di rustico montanaro - col Panzierino, un pupattolo che teneva in braccio sempre ridente e rosso per la malaugurata abitudine dei suoi di fargli assaggiare il grappino mattutino, la piccola Paola che ogni anno cresceva un po' di più e con la quale ogni anno mi spingevo un po' più in là con reciproco spasso...e tutti gli altri con i quali la notte ci si stringeva intorno al falò per preparare un potente e untuoso vin brulè con dentro pepe e chiodi di garofano. Una manna viste le temperature polari che stecchivano le tele delle tende e chi le occupava, passato di bocca in bocca nelle grolle, sotto costellazioni mai viste dalla capitale. E gli enormi pentoloni dove quotidianamente sobbolliva la polenta taragna per ore, e l'attesa spasmodica che suonasse il campanaccio a mezzogiorno per avvertire che nella mensa erano pronti i pinzoccheri. Si badi bene, mica gli astrusi pinzoccheri nelle buste precotte oggi in voga nei discount, no, questi erano una sorta di gnocchi di patate miste a vari tipi di formaggi locali che salivano e scendevano nei calderoni fumiganti per poi essere versati nei piatti con l'intingolo bianco e filante dei formaggi fusi, coprendo il tutto di parmigiano grattato. Un profumo che si spargeva per tutta la valle costringendoci a interrompere le partite a bocce e gli altri giochi - a carte, più che altro - per correre ai tavoli. La piccola canadese ci liberava dal dover dormire con i miei nel pur caldo pulmino, offrendoci la possibilità di svicolare la notte in cerca delle altre compiacenti campeggiatrici con le quali quasi sempre si rimediava un calore di tutt'altro genere. I monti che chiudevano in solido abbraccio la valle offrivano escursioni leggendarie, in cerca di funghi e a volte di gnomi: una volta mi inerpicai per un sentiero senza rendermi conto che era un semplice camminatoio di capre e finii appeso ad un albero sul burrone senza poter tornare indietro finché riuscirono a ritrovarmi e a trascinarmi sano e salvo al campeggio, dove fu salvifico il rito del grappino per farmi tornare il colore in faccia. Poi tutto finì, come spesso succede in questa nostra Italia, nella maniera più gretta...la Lega Nord emetteva i suoi vagiti e le popolazioni risposero all'appello senza bisogno di chiederglielo così un giorno, al nostro arrivo, quello che sentimmo intorno a noi non fu: Come state? Quanto tempo! ma il ben peggiore: Sono arrivati i Terroni. Insalutati ospiti, a sera smontammo tutto e ce ne andammo in Germania per non tornare mai più in quel campeggio.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 28

 (01.02.2009)

Primi anni 80, cominciavano i nostri grandi vagabondaggi per l'Europa. Avevamo comprato un pulmino Volkswagen e lo avevamo attrezzato a camper col cucinotto, il tetto alzabile, tendine, cassettoni, wc nautico e letti smontabili. Più avanti, negli anni, aggiungemmo anche una tenda da campeggio a quattro posti che si attaccava di lato, nella zona del portellone, consentendo così un miglior uso del mezzo una volta fermi nei campeggi. Con il pulmino, a mo' di bizzarri figli dei fiori, facevamo delle traversate senza fine, spaziando dalla Francia alla Norvegia. Prima di partire, organizzavo maniacalmente il viaggio, munito di cartine, mappe, liste degli alberghi: calcolavo spese e quanto altro, arrivando a misurare i litri e il costo della benzina per tutto il viaggio, imprevisti compresi e di solito la cosa funzionava egregiamente. Di quegli anni e di quei viaggi restano impresse nella memoria scene, sensazioni, emozioni fortissime; l'arrivo nel parcheggio di Schaffausen che si affacciava sul baratro prospicente alle Cascate Regina, sotto le quali si poteva andare con un battellino, e distinguevi tutto lo spettro dei colori dell'iride nel vagolare delle gocce disperse nell'aria dalla cascata. O l'arrivo, nel morire del giorno, alla frontiera olandese, dove - appena passata - il panorama cambiava drasticamente: la strada calava in basso immergendoci in un infinito tappeto di nebbia densa alta un metro da terra, dalla quale come una visione spuntavano le schiene di diecine di mucche nell'aria soffusa di uno spettacolare tramonto. Notti infinite sotto cieli sconosciuti, le stelle non più al loro posto, aromi e fragranze stranieri. A Chateau d'eau, avvolti da una pioggerella tiepida e uggiosa, mangiammo curiosi cubi di carne al sangue, profumatissimi, che si scioglievano in bocca, sotto una tettoia di legno su panche rustiche in riva al lago e un passero paffuto e malizioso saltellava imperterrito sul tavolo in cerca di ghiottonerie. A Copenhagen, dopo la visita al magnifico Parco dei Divertimenti, ci recammo a visitare la Sirenetta, che tranquilla lascia che le onde della battigia lambiscano lo scoglio sul quale è alloggiata, vicino al pontile, per scoprire che l'immagine da sempre amata e immortalata ritrae una statuina alta poco più di un metro.. E Madurodam? quell'incredibile parco a tema col mondo in miniatura, dove si poteva passeggiare tra monumenti celebri e cattedrali che ti arrivavano alle ginocchia, capendo al fine come debba sentirsi Godzilla quando va a Tokio in vena di far danni. Quanti campeggi visitati, quanti chilometri sotto quelle ruote.. quando passavamo la frontiera italiana - altri tempi, certo - ci sentivamo come dei veri contrabbandieri perché occultavamo in ogni interstizio possibile, da veri italiani doc, pacchi e pacchi di pasta Barilla necessari alla nostra sopravvivenza all'estero. Comprensibile, se si tiene conto che fuor dall'Italia si trovava solo in confezioni da 125 grammi e a prezzi proibitivi. Fossimo stati furbi ci si sarebbe arricchiti, o quantomeno si sarebbero limate bene le spese dei viaggi.. in realtà volevamo portare con noi solo un pezzo di Patria. Gastronomicamente parlando, beninteso, ma sempre cara!



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 27

 (31.01.2009)

A metà degli anni settanta, in una stagione di benessere economico generale, capitò a mio padre di conoscere la prima violinista del Teatro dell'Opera di Roma e di entrare con lei e la sua famiglia in amicizia. Questo ci diede la possibilità di ottenere una corsia preferenziale per uno dei rari ed ambitissimi posti di abbonamento alle prime poltrone della platea, cosa che notoriamente si tramanda in via generazionale e sono quindi estremamente difficili da trovare. Anche allora la cifra da pagare non era indifferente, nulla comunque in confronto ai prezzi odierni, del tutto inavvicinabili. Cominciai così, tutti i sabati pomeriggio, ad assistere alle rappresentazioni degli spettacoli in cartellone, entrando in un mondo sfavillante ed in un atmosfera ottocentesca; all'ingresso si potevano acquistare i programmi ed i libretti gialli editi dalla leggendaria Casa Ricordi con tutte le battute delle opere, ed era consuetudine seguirli con minuscole pilette semi celati dagli schienali delle poltrone. La Ricordi allora aveva vari negozi in città, a viale Giulio Cesare, a viale delle Milizie e alla stazione, che poi furono venduti a Maraldi e anni dopo acquisiti definitivamente dalla editrice Feltrinelli, che snaturò completamente il fasto antico e demodé dei negozi rendendoli certo moderni ma molto meno umani. Di solito prima della rappresentazione mi recavo a perder tempo nel foyer per concedermi un caffè guardando il bel mondo tirato a lucido per l'occasione, non che fossi da meno, con i miei completi scuri e le cravatte per le quali fin d'allora coltivai una sorta di mania feticistica, arrivando a possederne circa duecento di tutte le fogge, dalle più classiche regimental alle più ridanciane con Paperino o Brontolo, ottime per tenere alto il morale quando lavorai nei call center..Tre squilli annunciavano l'inizio della rappresentazione ed io attraversavo i tendaggi pesanti che dividevano il foyer dalla platea seguendo le mascherine fino alla mia poltrona in terza fila, un posto di corridoio centrale spettacolare per acustica e visibilità. Mi recavo a salutare la violinista nel golfo mistico scambiando con lei alcune facezie sui cantanti del momento poi mi predisponevo attento all'ascolto. Si faceva buio e l'orchestra attaccava i preludi, fino all'apertura del sipario, il momento magico che chiamavamo "l'alito del drago" perché l'atmosfera immobile e pesante della sala veniva improvvisamente scossa dallo spostarsi dell'aria e dal suo fruscìo: quanti allestimenti spettacolari, classicissimi, grandiosi, ho visto da allora. I direttori più celebrati, i cantanti migliori, le regie più attente alla tradizione! Vidi in quegli anni centinaia di opere, tutte le italiane godendomi le bizzarrie di Rossini, i toni crepuscolari del Puccini, la maestosità del Verdi e gli immortali capolavori di Wagner tra i quali la tetralogia dell'Oro del Reno anticipava i toni epici che ritrovai anni dopo nella lettura del Signore degli Anelli. Grazie alla cortesia della mia amica mi capitava a volte di intrufolarmi dietro le quinte e una sera ebbi la ventura di conoscere Montserrat Caballè, persona di grande dolcezza e amabilità che ritrovai, così tanti anni dopo, ad un recital al Teatro Ghione; quando passai da lei in camerino - incredibilmente - si ricordò di me e potemmo intavolare una breve discussione sullo stato generale del Teatro dell'Opera al tempo. Di quegli anni restano scolpite nella memoria le favolose scene di certe Aida, di certe Turandot e persino La Fanciulla del West con i cowboy a cavallo a rincorrersi realmente in una foresta perfettamente ricostruita. E che dire poi delle bizzarre sperimentazioni dei primi anni ottanta, quando la politica con le sue proteste già avvelenava sottilmente quel mondo ancorato alla sua peculiare antichità, sfornando assurdità del tipo "Aiuto, aiuto, arrivano i globolinks!", sorta di opera fantascientifica con alieni che scendevano tra il pubblico lasciando i melomani esterrefatti... Potente, infine, e sempre vivo è il ricordo dell'ultima apparizione sulle scene di Nureyev, con Il lago dei cigni, che vidi a Caracalla insieme a mia madre; all'ingresso dei diavoli travestiti da turisti giapponesi mi sventolarono sotto il naso un rotolo di biglietti da centomila per avere il biglietto e ammetto che fui lì lì per cedere alla vile pecunia ma tirai dritto, i posti erano esauriti da mesi, e mai me ne pentii. Nureyev poco tempo dopo ci lasciò segnando una ferita insanabile nel mondo dell'Opera e con amore malcelato conservo in un cassetto del cuore quei frammenti visivi dei suoi omaggi a Diaghilev e a Nijinsky...



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 26

 (26.01.2009)

Fine anni 60, le gioiose e lunghissime vacanze estive  ci tenevano col fiato sospeso già molto tempo prima della fine della scuola. Mio padre prendeva in affitto per tre mesi un appartamento ad Ostia, il mare di Roma, vicino alle zie che ne possedevano uno, poi restava in città a lavorare sui cantieri con mio nonno. Io, mia madre e mio fratello piccolo ci stabilivamo là, prendevamo il posto e la cabina allo stabilimento Marechiaro e ci dedicavamo a dimenticare l'anno trascorso sbizzarrendoci sul lungospiaggia. Nettissime ancora, a distanza di quasi quarant'anni, le memorie di quei giorni, il caldo impressionante dell'estate che perdurava continuo giorno e notte, l'odore denso degli olii abbronzanti che stagnava nell'aria, il frusciare sommesso delle onde interrotto dalle canzoncine dei jukebox - quelle favolose canzoni pop ancora così simpatiche da ascoltare. Ci portavamo di tutto nella cabina, panni, vestiti, thermos con il pranzo e non vedevamo l'ora di gettarci in acqua, quel mare limpido dove tra le gambe ci sgusciavano minuscoli pesciolini argentati. Piazzati sull'arenile, sotto lo sguardo vigile di mamma e delle zie, organizzavamo castelli intricati, tunnel dove far correre le palline trasparenti con le figurine dei calciatori all'interno, ci seppellivamo nella sabbia lasciando testa e piedi fuori al sole su cuscinetti improvvisati. Era uno spasso il tornare, al pomeriggio, passando davanti alle bancarelle dei libri usati dove facevo incetta di giornalini di Cino e Franco, del Vittorioso, di Mandrake e dell'Uomo Mascherato per poi leggerceli sul divano un po' ammuffito che troneggiava nel salotto-camera da pranzo. Ma quello che ci affascinava veramente era, quando la mattina presto, col fresco, ci recavamo allo stabilimento, andare a prendere i bomboloni caldi di cui subito incoscientemente e voracemente facevamo scorpacciate. C'era, e a dirla tutta ancora c'è, una pasticceria dal lucido bancone sovrastato da una bizzarra canalina metallica: ogni quarto d'ora si sentiva uno scampanìo, si apriva una porticina in alto nel muro ed un grosso bimotore arrivava con le eliche ronzanti, fino a fermarsi vicino alla cassa, si apriva il portellone e ne pioveva giù un nugolo di bomboloni alla crema e al cioccolato. Che gioia starsene lì col naso alzato, in attesa, quelle meravigliose attese che solo i bambini conoscono, quelle attese di qualcosa che a volte è fantastica solo per l'anima piccina che l'attende e mai la disattende. Ce ne facevamo dare una busta e forse solo la metà arrivava intera sulla spiaggia. Ogni giorno si incontravano bambini nuovi con i quali parlare dei rari giocattoli ricevuti, mostrare orgogliosamente le pistoline a spruzzo, le biglie - quante! - certosinamente custodite in sacchetti di rete blu, e poi tutti in acqua a far cagnara, imparando da soli i rudimenti del nuoto, lasciandosi cullare a galla fino a che sulla testa solo le rosse nuvole del tramonto scorrevano leggere. Ricordo una mattina prestissimo, papà era venuto la sera prima e ci aveva svegliato per andare ad accendere il televisore, un cassettone in bianco e nero come era in voga all'epoca; ci trascinammo davanti allo schermo ed ecco lì la sorpresa! Davvero, ma davvero qualcuno stava mettendo il primo piede umano sulla Luna? Che cosa incredibile, mi tornavano in mente gli antichi libri di Giulio Verne che avevo letto a casa e mi sembrava che nulla potesse rappresentare il futuro più di quelle immagini silenziose. Anni di sogni, quando qualsiasi cosa sembrava il massimo, un bombolone dorato, il ciclone che si portò via gli ombrelloni, un uomo sulla Luna, Fidenco che cantava dai jukebox o forse, ma sì, mio padre che per un giorno si svegliava insieme a noi e tutti insieme, con i nostri pantaloncini da spiaggia col timoncino ricamato in bianco e i secchielli e le palette, a vivere come ogni famiglia dovrebbe poter ricordare di aver vissuto.




ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 25

(26.01.2009)

 Gli anni Ottanta videro Roma protagonista di una formidabile kermesse, il Fantafestival, che tuttora prosegue annualmente in sale diverse, ma il gusto pionieristico dei primi anni si è definitivamente perduto. Ricordo le file incredibili per accaparrarsi un biglietto per le proiezioni che iniziavano dal primo pomeriggio sino a notte inoltrata in sale oramai scomparse, il cineclub Tevere di via degli Scipioni, una sorta di cripta per trecentocinquanta persone con le seggiole di legno, ex sala parrocchiale...il Planetario, che cambiava destinazione d'uso per la rassegna e ci vedeva stipati nella sala circolare armati di sedie d'ogni tipo...fino ai fasti del Capranichetta, con le sue colonne marmoree, gli stucchi e gli specchi d'epoca, due piani dove la gente si accalcava a fumare tra un tempo e l'altro sulle grandi scalinate - ora diventato una specie di resort per i politici dell'attiguo Quirinale e i loro convegni. Tra gli organizzatori spiccavano sempre Ravaglioli e Cozzi, che ci davano la possibilità di assistere a primizie internazionali, ma il vero divertimento per gli appassionati era la riscoperta dei film in bianco e nero degli anni cinquanta, quei deliziosi piccoli classici immortali come La Meteora Infernale, La Mantide Omicida, la serie di Quatermass, Radiazioni BX e cento altri. Ci si sbragava sulle poltroncine armati di ogni genere di conforto, dalle sigarette alle lattine, chi portava i panini, chi le macchine fotografiche, in un bailamme indecoroso e ridanciano e aspettavamo che partisse la consueta sigla registrata da Luigi Cozzi col suo vocione che annunciava "i marziani più verdi, i mostri più mostri.." e via così.  Una comunità di fans che rasentava la bolgia, quando secchiate di sangue solcavano gli schermi le urla e le risate  arrivavano al soffitto...Conservo ancora, con sottile piacere, i booklet e i programmi delle rassegne dell'epoca, chicche per cinefili con quotazioni da brivido e a volte riguardandoli torno a quegli spettacoli favolosi. Ricordo quando venne annunciata l'ultima proiezione mondiale di Tarantula, prima che la pellicola andasse al macero.. la fila fuori dal Planetario iniziò al mattino e al pomeriggio non c'era un biglietto neanche a pagarlo oro. Riuscii Dio sa come a sgattaiolare nella ressa e me lo vidi letteralmente steso in terra con la testa tra le scarpe dei primi spettatori, sotto lo schermo, pur di non perderlo. Che poi adesso , di notte, Tarantula ancora lo diano nei canali di Sky, bene, non vuol dire, volete mettere? Non c'è paragone! E quanti altri film che poi veramente andarono perduti, dei quali pochissimi conservano la memoria, come The Spawn From The Slythis col mostro uguale ad Alien, proiettato una sola volta durante una rassegna al cinema Clodio prima che lo stesso divenisse una sala di registrazione della Rai e poi alla fine una specie di supermercato cooperativo...O i meravigliosi "corti" di Saul Bass, il regista che ha realizzato moltissime sigle di testa per film come gli 007 e tanti altri. La rassegna continua ancora, anno dopo anno, credo sia arrivata alla 28° edizione, ma il mordente pionieristico e un po' cialtrone dei primi anni no, quello è fuori moda, ora è tutto laccato, preciso, algido. Ma le atmosfere ubriache e fumose dei cinema-bettoline , dei cine club, le cicche in terra, i bruscolini, e le apparizioni salutate dalle ovazioni dei fans in delirio di Cristopher Lee o di Vincent Price, quelle restano solitarie nel cuore di chi c'era. Fortunati noi..





ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 24

 (06.01.2009)

Iniziarono bene, in fondo, le nostre minuscole vacanze. Un padre e un figlio, bagagli nel cofano, pronti ad un inarrestabile voglia di stare insieme e divertirsi per quei pochi giorni permessi dai turni lavorativi. Un bel viaggio lungo fino a Cesena per portare il cucciolo a far cagnara a Mirabilandia, ristoranti per farlo strabiliare davanti a portate inconsuete, giocattolini ad ogni richiesta perché in fondo io posso sempre andare con le toppe ai pantaloni e le scarpe slabbrate ma lui ha il diritto ad essere felice. E poi un tranquillo fine settimana a Montepulciano, a fargli conoscere un vecchio amico ristoratore prodigo nel riempirci piatti e stomaci di pici in tutte le salse, i musei, i favolosi panorami della vecchia, cara Toscana. Ore liete, a trascinarci qua e là, nella placida indolenza di chi è intimamente soddisfatto delle poche cose che la vita concede, pago del vederlo ruzzare senza pensieri per le viuzze e nei negozi. E per finire la serata perché non portarlo al parco centrale di Montepulciano, tra chioschi, fiere paesane, stand, giardini, alberi, cespugli e quanto altro? Già, perché? Ed eccoci là, io seduto in panchina a fumare guardandolo correre sugli scivoli e le altalene con i bambini del luogo e dei villeggianti, mentre intorno la folla ondeggia lentamente da un capo all'altro della fiera. E lo vedi far comunella con un bambino napoletano, e chiacchierare, e bisbigliare con aria complice e sorniona e poi mettersi a correre per tutto il parco, allegri, ma senza la minima intenzione di tornare quando lo chiamavo. Così, dopo aver fatto un poco finta di niente, aver provato a chiamarlo per vedersi ridere in faccia e fuggir via, cominci a sentirti nervoso, e poi anche preso in giro e ti alzi e inizi ad andargli dietro per riprenderlo. Ma no, che subito fuggono via, svicolando tra i meandri del parco. E inizi a correre, vergognandoti come una bestia degli sguardi della gente, sentendo addosso il peso del ridicolo e della sua disubbidienza. E poi sparisce. E inizi a non vederlo più, lì, in quel parco improvvisamente troppo grande, troppo affollato. E scende la sera, e la notte la segue e tutto diventa così buio, tra le mille luci dei lampioni e degli stand. Troppo buio in tutta quella luce. E la senti, prima leggera, poi sempre più forte, la mano ghiacciata della paura che ti accarezza la nuca. E corri qua, e poi là, e da uno stand all'altro, con mille occhi per cercarlo e non trovarlo. Poi d'un tratto eccone la sagoma furtiva che corre lontano, e via, appresso, chiamandolo e loro scappano di nuovo. E non sai cosa fare, se allertare la polizia, se rivolgerti a qualcuno ma non c'è nessuno, mille persone ma nessuno che possa aiutarti, e ti ricordi il mestiere che fai e le cose che senti e che vedi tutti i giorni e che non sa lui. Lui che sta correndo chissà dove. Passa un ora, ne passano tre, la gente va via, e tu a correre vicino alle uscite per trovarlo prima che.. già, prima che. Prima che quello che non vuoi pensare, succeda. Prima che sparisca davvero. Alla fine è là, sono là, nascosti dietro un albero e inizi a urlare, a girargli intorno come un pazzo per prenderlo e te lo ritrovi piangente, terrorizzato persino, tra le braccia. Ma terrorizzato, scopri, da te perché l'altro bambino gli aveva detto che lo avrei picchiato e lui aveva paura. Di me. Di suo padre. Così lo prendi per mano, senza rivolgere la parola all'altro bambino i cui genitori neanche per un attimo si son curati di cercare, e lo trascini fuori verso l'albergo, e lo senti implorare di non picchiarlo. E fatichi a rispondere che no, non avrei voluto picchiarlo, volevo solo ritrovarlo, e te lo metti seduto sulle spalle, per sentirlo finalmente preso. Tenuto. Tuo. Tornati in camera alla fine si acquieta e si addormenta su di me, al mio calore che lo tranquillizza. E mentre le ore si susseguono guardi il soffitto in preda ad una furia cieca, pensando che se fossi stato armato qualcuno sarebbe morto. Pensando che se fosse sparito sarei morto io. Così, ringrazi Iddio che te lo ha ridato e, col vuoto dentro, aspetti il sorgere del sole e sai di dover essere grato alla vita per averti insegnato qualcosa di nuovo, come fa sempre quando non gli viene richiesto: il vero, reale significato del terrore.



ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO : 23

 (03.01.2009)

All'inizio degli anni 80 vissi certamente la stagione più piena dei miei amori giovanili, quelli insensati, bollenti, quelli che ti segnano e quelli che svaniscono come le bolle di sapone nella nebbia. Ricordo un giorno, tornavo dall'università con l'autobus, attraversando il centro, quando tra la folla stipata mi apparve qualcosa di molto simile ad una visione: una ragazza talmente bella che diventai rosso al solo guardarla in faccia. Lei se ne accorse perché sorrise, con un sorriso da aprire i cieli, con due occhi azzurri purissimi, boccoli biondi a farle da corona.. Dovevo essere completamente fuori di testa perché senza capire quel che facevo mi spinsi sino a lei, fissandola ma senza il coraggio di aprire bocca. Restai a fissarla fino alla mia fermata, lei era davanti a me, si aprirono le porte e si spostò, scesi convinto di averla dietro di me ma mi girai e la vidi, ridente, dietro le porte che si chiudevano. Mi salutò e il mio cuore fu perso. Da quel giorno mi aggirai intorno alla fermata dove ero salito la prima volta, tutte le mattine, per due mesi, non concludevo più nulla, non andavo più all'università, non avevo niente altro nel cervello che lei. Alla fine, stremato, decisi che avrei fatto un ultimo tentativo e poi avrei lasciato perdere; mi piazzai come al solito a via Tomacelli, alla fermata dell'autobus e le ore scivolarono lente. Poco prima di pranzo, mentre stavo per andarmene, lei scese alla fermata insieme ad una amica, si girò e mi vide, sorrise, mi venne incontro e come se non avessimo fatto altro prima nella vita, ci abbracciammo e ci baciammo. Ricordo il mio viso affondare nei suoi capelli d'oro, ricordo il suo profumo, la sua carne, le sue labbra. Ci prendemmo per mano e passammo la giornata insieme, quasi senza parlare. Era così, così doveva essere. Furono mesi deliranti, completamente persi uno nell'altra, poi i suoi amici, il gruppo che aveva, cominciarono a prendere più spazio di quanto ne desse a me. Io, pazzo come ogni giovane è, mi distaccai quel tanto che bastò per incrinare la sfera di cristallo dove avevamo chiuso i nostri sogni. Ma continuavamo a vederci e ad amarci. La ricordo, con i suoi stivali color dattero chiari e alti, le calze autoreggenti color smeraldo, la gonna di cotonina provenzale a fiorellini, la camicia bianca morbida, il golfino a cardigan rosa aperto e lei, con quegli occhi che avrebbero cristallizzato i cieli, che mi diceva : vieni, puoi farlo, ti voglio. E io che piangevo nel possederla, terrorizzato all'idea di perderla. E un giorno, ovviamente, la persi. Incontrò un altro, uguale a me, ironia della sorte, in tutto e per tutto, tranne per il fatto che era un finanziere e dunque aveva un lavoro che gli avrebbe permesso di mettere le basi per una famiglia. Del giorno del loro matrimonio, il primo maggio dell'81, rimane un quadro spaventoso che feci e che non ho mai esposto per la troppa violenza che racchiude. Ma il tempo passò e i loro guai iniziarono. Ricominciammo a sentirci, a vederci e tornammo ad amarci, con forza, con violenza, con la passione di due amanti ad un passo perennemente dalla fine.  La nostra relazione durò per qualche anno, più maturi, più disillusi, ma ancora innamorati così profondamente, da sapere che noi e solo noi eravamo il nostro destino. Fin quando cambiò lavoro, cambiò casa e andò ad abitare fuori Roma ed io non la incontrai più. Come un drogato in crisi d'astinenza, a volte, alzavo il telefono per sentire la sua voce nella segreteria telefonica e mi illudevo di avere ancora davanti a me quel suo viso meraviglioso, inchiodato come un icona nel ricordo di una giornata d'estate...io che andavo ai castelli con la mia ragazza dell'epoca e fermavo l'auto davanti ad un baracchino dove vendevano funghi per acquistarne e lei che scendeva dall'auto del fratello per lo stesso motivo, con un cappellino di paglia ornato da nastri azzurri e piccole ciliegie di plastica rosse del colore delle sue labbra, e i nostri occhi a supplicare di avere ancora un attimo di tempo solo per noi. Per poi svanire, lasciandomi col cuore a brandelli. Ed io a trascinarmi tra amori grandi e piccoli, tra esperienze di vita e decisioni giuste o sbagliate. Ma il mio cuore è con te, lo sarà sempre, così come eterna sarà la bellezza che ho fermato nei tuoi quadri. Quando noi saremo cenere la disumana grandezza di questo amore avrà lasciato parole indelebili nel libro della Vita e allora sì, che ci incontreremo di nuovo, e sarà per sempre. Intanto qui, io resto a scontare il peccato di averti perduta, una colpa che il tempo non cancella né perdona, in questo presente dove solo la forza di rendere un sogno, il Sogno, quello che altrimenti sarebbe solo e unicamente un ricordo come tanti, una ruga in più sull'anima, mi dà la capacità di non arrendermi alla realtà.  Nulla muore se non la lasciamo morire, nulla invecchia se gli occhi del cuore sanno restare giovani.